Mind the economy

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La tragedia, la vendetta e la nascita della giustizia impersonale

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 19/02/2023

Con l'affermarsi della tragedia greca l'idea di giustizia assume un significato nuovo, una dimensione conflittuale, un tono oscuro. Come ci spiega Hegel, infatti, “gli eroi tragici sono [al contempo] sia colpevoli che innocenti”. È tragica quella situazione nella quale il destino di persone buone viene stravolto da avvenimenti e circostanze che essi non possono controllare e perché si trovano al di fuori della loro sfera di influenza e inducono quelle stesse persone buone a compiere azioni malvagie, contrarie ai loro e ai nostri principii.

Gli inganni del caso

In alcuni casi essi sono ingannati dal caso, in altri agiscono malamente ma non intenzionalmente, altri, ancora, non agiscono affatto e la loro unica colpa è la sola omissione. Ma la vera essenza del conflitto tragico si trova in quelle situazioni nelle quali, al contrario, il male è agito senza costrizione, volontariamente e coscientemente ma sempre in circostanze lo rendono, in qualche modo, inevitabile.

Nella poesia di Eschilo, il primo tragico, questo è particolarmente evidente. Si pensi ad Agamennone, protagonista della prima delle tre opere del ciclo dell'Orestea, che sceglie di sacrificare la figlia Ifigenia per placare l'ira di Artemide e propiziare la partenza alla volta di Troia, della flotta achea, che la dea aveva inchiodato in Aulide con un'interminabile bonaccia.

Il sacrificio di una figlia

Sacrificare la più bella delle figlie o lasciare languire la flotta in balia dell'ira degli dèi? Queste sono le alternative che si pongono ad Agamennone. Ognuna delle quali produce conseguenze malvage, genera conseguenze nefaste; eppure, non si può non scegliere. Qual è, dunque, il posto della giustizia in questo contesto tragico? È possibile trovare una saggia guida in simili circostanze? Secondo non pochi filosofi, da Socrate a Kant, fino a Sartre, la risposta a tale quesito è negativa.

Per questo, spesso, la tragedia eschilea viene considerata primitiva da un punto di vista filosofico, basata, com'è su dilemmi che un'etica sofisticata sarebbe in grado di sciogliere facilmente. Sentiamo Socrate, per esempio, affermare nell'Eutifrone, che le storie dove si oppongono due pretese di diritto ripugnano alla ragione proprio perché affermano una contraddizione e le cose non possono essere “sante” e “non-sante” allo stesso tempo.

Il dilemma etico che affiora

In casi come questi, continua Socrate, dove emerge un dilemma etico su ciò che è appropriato e ciò che non lo è appare razionale, e sempre possibile, cercare di scoprire quale delle due posizioni è quella corretta. Solo una delle due, infatti, può, in fin dei conti, essere vera e, per questo, l'altra sarà necessariamente falsa.

Socrate raggiunge questa conclusione attraverso una sorta di ragionamento “per assurdo”. Se gli dèi, infatti, imponessero ai mortali richieste tra loro conflittuali, posto il dovere da parte degli uomini di onorare la volontà di tutti gli dèi, si dovrebbe giungere all'inaccettabile conclusione che alcuni dèi si trovano in una situazione di errore e per questo esercitano pretese ingiustificate nei confronti dei mortali. Per questo Socrate conclude con l'invito ad Eutifrone a considerare come obbliganti solo quelle richieste sulle quali gli dèi sono unanimemente concordi.

Una filosofia primitiva per alcuni

Ecco, dunque, perché situazioni “tragiche” come quelle che troviamo in Eschilo appaiono agli occhi di molti interpreti manifestazioni di una filosofia primitiva e di un pensiero ancora incapace di manifestare un pieno sviluppo della razionalità. Il tema arriva, attraverso altri autori fino alla modernità. Jean-Paul Sartre ci presenta in L'esistenzialismo è un umanismo (Mursia, 2016) un tipico esempio di conflitto morale.

Un giovane deve scegliere tra l'obbligo di provvedere all'anziana madre e la spinta a partire per l'Inghilterra per unirsi alle forze della Resistenza francese e lottare per la sua nazione. Situazioni come queste rappresentano per Sartre solo apparentemente dei dilemmi tragici; sono, piuttosto, dei finti problemi, dei problemi in cui rimangono impigliati solo i “vigliacchi” e i “mascalzoni”, come li definisce Sartre.

Secondo una prospettiva comune i due “fini in sé” – l'assistenza alla madre e la difesa della Patria – rischiano di essere trasformati in “mezzi”: l'abbandono della madre è il “mezzo” grazie al quale diventa possibile difendere la patria così come rinunciare ad unirsi alla Resistenza diventa il “mezzo” per poter prendersi cura della madre.

La libertà nascosta

Ma questa visione è colpevole, secondo Sartre, di nascondere la radicale libertà dell'essere umana. “Quelli che nasconderanno a sé stessi, seriamente o con scuse deterministe, la loro totale libertà, io li chiamerò vigliacchi; gli altri che cercheranno di mostrare che la loro esistenza è necessaria, mentre essa è la contingenza stessa dell'apparizione dell'uomo sulla terra, io li chiamerò mascalzoni”. Per questo, conclude sempre Sartre, possiamo affermare che “L’uomo è condannato a essere libero”.

Per Richard Hare i dilemmi etici emergono non tanto da principi incoerenti tra di loro, quanto piuttosto, da principi etici mal formulati. Se affermiamo che “non mentire” sia un principio morale potremmo trovarci in una situazione nella quale la scelta di non mentire può produrre più male che bene.

Il rispetto del principio morale

Pensiamo ad un prigioniero che in guerra è indeciso se rispettare il principio morale o violarlo, mentendo al nemico per proteggere i suoi compagni, per esempio. In casi come questi il problema nasce da una cattiva definizione dei principi morali stessi. La regola qui dovrebbe essere, infatti, “non mentire, eccetto che al nemico durante la guerra”, o qualcosa di simile. Come ci ricorda Kant, infatti, fa parte della nozione stessa di regola morale che essa non possa mai essere in contraddizione con un'altra regola morale.

Nonostante queste possibili “soluzioni”, il dilemma di Agamennone che si trova dilaniato dalla necessità di scegliere tra la vita della figlia o la distruzione della flotta continua a far risuonare in noi delle note profonde che generano un'angoscia che né la libertà radicale di Sartre, né l'igiene sintattica di Hare sono in grado di chetare. “Percossero gli Atridi con lo scettro la terra e non frenarono il pianto (…) Mala sorte è la mia se obbedienza rifiuto, mala sorte se la figlia sacrifico, splendore della mia casa, e qui, presso l'altare, nei fiotti della vergine sgozzata, contamino le mie mani paterne. Quale delle due sorti è peggiore?”. Come Agamennone anche noi proveremmo la stessa rabbia e una simile disperazione.

La reciprocità del contraccambio

La strategia della giustizia poetica di Eschilo sceglie allora un'altra strada. Fa usciere Agamennone dal dilemma attraverso l'esercizio della sua volontà e mette in scena l'azione della giustizia attraverso la reciprocità del “contraccambio”, della vendetta che ristabilisce l'equilibrio alterato dalla tragedia.

La volontà, intanto: Agamennone sceglie di sacrificare la figlia e una volta determinata tale scelta questa smette di essere ragione di angoscia, e diventa, al contrario, la cosa giusta da fare. “Plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue della vergine. È giusto e santo (themis) che questo io desideri con furore. E così sia bene”.

Non solo, dunque, Agamennone non appare più dilaniato dalla scelta, ma assume un atteggiamento di fierezza proprio grazie ad essa. La filosofa americana Martha Nussbaum sottolinea chiaramente questo elemento: “L'atteggiamento verso la decisione muta dopo che essa viene presa."

L’ottimismo di Agamennone

Dalla constatazione che un grave destino lo aspetta in ogni caso e che entrambe le alternative implicano un male Agamennone è passato ad un particolare ottimismo: se la soluzione scelta è la migliore, tutto ora potrà andare bene. Un atto che saremmo pronti a considerare come il crimine minore tra due orribili empietà diventa ora per Agamennone pio e giusto, come se egli, attraverso una qualche strategia della decisione, avesse risolto il conflitto e si fosse sbarazzato dell'altra ‘mala sorte' (…)

Agamennone sembra in primo luogo pensare che, se egli ha deciso in maniera giusta, l'azione scelta deve essere giusta; e, in secondo luogo, che se un'azione è giusta, è appropriato volerla, addirittura provare entusiasmo per essa” (La fragilità del bene. fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca. Il Mulino, 2004).

Questo entusiasmo non risparmierà ad Agamennone e agli Atridi, la sua stirpe, una fine terribile. Arriverà il “contraccambio” che avvolgerà tutti i protagonisti in una spira di vendette. Se è vero, infatti, che egli partirà con il favore dei venti alla volta di Troia al comando della flotta degli Achei, al suo ritorno, vittorioso, verrà però ucciso dalla moglie Clitemnestra – “Per la Giustizia di mia figlia che trova compimento” - con la complicità di Egisto divenuto suo amante e usurpatore del trono. Ma anche questa empietà non potrà rimanere impunita: “Ripagare il nemico con mali, come potrebbe non essere pio?” risponde il Coro ad Elettra, figlia di Agamennone, che invoca infatti “padre, un tuo vendicatore, e che chi uccise muoia in cambio con giustizia”.

La vendetta del figlio

Sarà il fratello Oreste a vendicare il padre uccidendo i congiurati Clitemnestra ed Egisto. Come ci ricorda Anna JellamoLa legge del contraccambio impone la vendetta. Legge antica […] provvista del carattere della sacralità: si riteneva che la vendetta del familiare ucciso preservasse dalle sofferenze che lo spirito del defunto avrebbe altrimenti inviato sulla terra, per vendicarsi a sua volta della mancata riparazione” (Il cammino di dike L'idea di giustizia da Omero a Eschilo. Donzelli, 2005, p. 125).

Eppure, la vendetta di Citemnestra e quella di Oreste non stanno sullo stesso piano. La prima è condannabile perché arriva a punire per ragioni familiari una scelta tragica compiuta in ossequio ad un dovere pubblico; la seconda, al contrario, ripara ad questa ingiustizia ristabilendo un ordine perturbato da considerazioni squisitamente private per quanto gravi: l'uccisione di una figlia. Non è un caso che Clitemnestra venga descritta con toni oscuri, non tanto come la madre violata, ma come l'assassina fedifraga del marito eroe.

La giustizia riparata spezza il ciclo del “contraccambio” e non solo pone fine alla faida dagli Atridi, ma li libera da una rete di crimini da cui sembrava impossibile potessero districarsi. “L'esperienza del conflitto può essere anche un'occasione di apprendimento e di sviluppo – continua la Nussbaum. […] Casi gravi come questi, se ci si impegna veramente a vederli e a esperirli, possono portare anche un progresso oltre al dolore, un progresso che nasce dalla maggiore conoscenza di sé e del mondo. Uno sforzo onesto di rendere giustizia a tutti gli aspetti di un caso difficile, considerandolo e provandolo in tutti i suoi molteplici aspetti, può arricchire i futuri sforzi deliberativi” (2004).

La saggezza attraverso la sofferenza

Il pathei mathos (la saggezza attraverso la sofferenza) eschiliano diventa non solo massima individuale, ma dinamica collettiva e civile. Quando nell'ultimo atto della trilogia, Le Eumenidi, incontriamo Oreste che dopo il matricidio di reca a Delfi ad invocare la protezione di Apollo, questi lo invia ad Atene, promettendogli la benevolenza di Pallade Atena la quale troverà una via per eliminare la sua colpa e spezzare la sete di vendetta delle Erinni che considerano Oreste una loro vittima designata.

Atena accoglie Oreste e, dopo aver ascoltato le testimonianze di entrambe le parti lo assolve dalla sua colpa e, per così dire, istituzionalizza, questo perdono attraverso la fondazione del tribunale dell'Areopago, organo al quale viene demandato, da quel momento in poi, il dovere di giudicare in maniera imparziale su casi simili. Così giustizia e vendetta vengono definitivamente separate l'una dall'altra sotto l'occhio vigile e autorevole di Atena ma, e qui la novità non può essere più radicale, con la responsabilità condivisa di un collegio di giurati.

La civiltà della giustizia

Un passo decisivo verso ciò che per la nostra sensibilità si distanzia dalla barbarie del “contraccambio” e più si avvicina alla civiltà della giustizia equanime e impersonale. “La città savia non permette che la punizione di queste situazioni continui all'infinito (…) non sarà più permesso che la colpa scenda senza limiti tra le generazioni” (Nussbaum, 2004).

La poesia di Eschilo non ci mostra “la soluzione” al dilemma tragico ma, piuttosto, la profondità del dilemma stesso. La soluzione è dunque quella di riconoscere la tragicità di certe scelte e la constatazione che queste, a volte, non hanno nessuna via d'uscita possibile.

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