I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 29/08/2021
«Nel corso del tempo il fallimento si è trasformato da un fatto ad un’identità». Scrive così lo storico Scott Sandage nel suo libro “Born Losers” (Harvard University Press, 2005). Non sorprende che le espressioni “sono un fallito” e “sono un fallimento” siano usate, oggi, in maniera interscambiabile. Fatto e identità. È anche questo un portato della dilagante retorica della meritocrazia che spinge a valutare una persona sulla base esclusiva dei suoi risultati – carriera, soldi, prestigio sociale, successi – appiattendo, in questo modo, l’identità sui fatti.
Non voglio qui discutere dei danni individuali e sociali che tale retorica provoca – l’ho fatto altre volte su queste pagine – vorrei, invece, discutere di come si può sfuggire ad una simile identificazione e allo stigma che essa impone e che, spesso, noi stessi ci autoimponiamo. Si tratta, essenzialmente, di capire come reagire agli errori, come affrontare il fallimento. Che facciamo, e perché, quando ci rendiamo conto di aver sbagliato tutto?
Cosa vuol dire “fallire”?
Le strade sono almeno due ed hanno a che fare con ciò che la psicologa Carol Dweck descrive con le espressioni “fixed mindset” (atteggiamento rigido) e “growth mindset” (atteggiamento di crescita). Quello che gli studi della Dweck e di molti altri suoi colleghi mostrano è che le nostre reazioni agli errori e i risultati che possiamo ottenere a seguito di un fallimento dipendono in maniera determinante da ciò che noi stessi pensiamo voglia dire “fallire”.
Per chi ha un atteggiamento rigido, il fallimento non è altro che un sintomo delle proprie scarse qualità o di una insufficiente intelligenza. Il fallimento definisce, quindi, chi siamo, la nostra identità. Ma se questo è vero, non c’è scampo. Noi siamo ciò che siamo e non possiamo diventare qualcun altro. La reazione, allora, al fallimento non può che essere di rassegnazione o di fuga. Un atteggiamento di crescita, invece, considera l’errore come una conseguenza di una insufficienza dell’azione e non tanto di caratteristiche identitarie fisse. Mancanza di impegno, perseveranza o applicazione, al massimo. Cose che non sono date e immodificabili.
Come reagire a un “fallimento”?
La reazione, in questo caso, può essere differente. Il fallimento ci può spingere a coltivare quelle qualità che se messe in moto possono farci crescere. Avremmo così imparato dall’errore e vissuto il fallimento come un punto di partenza, un trampolino di lancio.
La Dweck e due suoi colleghi, Lisa Blackwell e Kali Trzesniewski, decisero di analizzare un gruppo di 373 matricole delle scuole superiori nel loro percorso scolastico. All’inizio del primo anno tutti loro parteciparono ad una serie di test, compilarono molti questionari e vennero sottoposti ad attenta valutazione per comprendere se il loro atteggiamento e, in particolare, la loro concezione dell’intelligenza, poteva ricadere nella categoria “rigida” o “della crescita”. Il primo anno delle superiori è sempre complicato e non sono pochi i fallimenti cui si va incontro. Come avrebbero reagito questi ragazzi e queste ragazze? Dweck e soci si concentrarono, in particolare, sui risultati di matematica. I dati erano inequivocabili. A parità di competenze iniziali, i due diversi atteggiamenti, “rigido” o “della crescita”, erano in grado di prevedere in maniera precisa i futuri risultati scolastici dei partecipanti. Come concludono gli autori dello studio «Gli studenti che pensavano che la loro intelligenza fosse una qualità malleabile che poteva essere sviluppata erano, rispetto agli studenti che pensavano che la loro intelligenza fosse fissa, più propensi a credere che lavorare sodo fosse necessario ed efficace per il successo (…)».
Modelli di risposta e prestazioni successive
Questi diversi modelli di risposta alla sfida e alla difficoltà si sono riflessi in discrepanze significative nelle prestazioni effettive degli studenti. Quasi 2 anni dopo, gli studenti con una forte teoria incrementale dell’intelligenza all’inizio della scuola hanno superato quelli che avevano una teoria dell’intelligenza fissa.
L’analisi approfondita dei dati mostra che queste diverse performance sono, in larga misura, dovute alle differenti reazioni davanti alle difficoltà, agli errori e ai fallimenti. Come sottolineano ancora gli autori, gli studenti con un atteggiamento di crescita «avevano maggiori probabilità di fare meno attribuzioni basate sulle capacità e di considerarsi impotenti di fronte alla prospettiva di battute d’arresto: gli studenti con queste convinzioni avevano meno probabilità di attribuire un potenziale fallimento alla mancanza di capacità» (Blackwell, L., Trzesniewski, K., Dweck, C., “Implicit Theories of Intelligence Predict Achievement Across an Adolescent Transition: A Longitudinal Study and an Intervention”. Child Development 78(1), 2007, pp. 246-63).
La chiave dell’umiltà
Uno dei punti di forza, infatti, di chi ha sviluppato un atteggiamento della crescita è l’umiltà grazie alla quale, davanti ad un errore, si decide di cambiare strategia e di riprovare con ancora più impegno. Il fallimento, come abbiamo visto, può avere non solo un effetto sulle nostre performance future, ma anche un impatto molto forte sulla nostra autostima, sull’immagine che ci costruiamo di noi stessi.
Anche in questo caso il “mindset”, il nostro atteggiamento, gioca un ruolo fondamentale. In uno studio di poco successivo a quello appena discusso, Carol Dweck assieme allo scienziato comportamentale di Chicago David Nussbaum, decisero di concentrarsi proprio sul modo in cui le persone mantengono e cercano di proteggere la propria autostima.
Le strategie di protezione dell’autostima
Le strategie possono essere di due tipi: la prima di natura difensiva e la seconda, invece, di natura correttiva, volta all’auto-miglioramento. Che legami hanno queste strategie con il “fixed mindset” e con il “growth mindset”?
In una prima fase dello studio i partecipanti vennero divisi in due gruppi e coinvolti in una gara di lettura veloce con un premio in denaro. Si trattava di uno stratagemma per far leggere ai ragazzi diversi testi. Nel testo assegnato ai membri del gruppo A si poteva leggere, tra le altre cose, che “le più recenti ricerche di psicologia mostrano che l’intelligenza individuale è in gran parte ereditata o, in ogni caso, determinata in un’età molto precoce”. Nel testo fatto leggere ai membri del gruppo B, invece, c’era scritto che “le più recenti ricerche di psicologia mostrano che l’intelligenza individuale non è fissa e può essere migliorata in modo sostanziale”.
La divisione in gruppi e la partecipazione a questo primo test di lettura serviva, nelle previsioni degli autori, ad indurre nei soggetti atteggiamenti differenti nei confronti degli errori.
La seconda fase dell’esperimento prevedeva, poi, un secondo test di lettura veloce molto difficile, progettato appositamente per affossare l’autostima dei partecipanti. Dopo aver presentato la lettura veloce come un’abilità molto importante e indicativa delle capacità intellettuali degli individui, ai partecipanti venivano dati solo quattro minuti per leggere un lungo e complesso passaggio de “L’interpretazione dei sogni” di Freud. Il limite di tempo di quattro minuti è, naturalmente, troppo breve per consentire una comprensione precisa del contenuto. Inoltre, le otto domande a scelta multipla utilizzate per verificare la comprensione del testo erano congegnate in maniera volutamente ambigua proprio per impedire ai partecipanti di capire se avessero risposto correttamente o no.
La terza fase, poi, era quella centrale di tutto l’esperimento.
A tutti i partecipanti venne detto che il loro punteggio ricadeva nel 37mo percentile della classifica generale. Un punteggio non catastrofico ma neanche brillante. Si poteva pensare che molti avessero fatto peggio, ma anche che molti altri, invece, fossero decisamente migliori di noi. Un fallimento dunque, non tragico, ma certo un colpo alla nostra autostima. Nella fase finale dello studio ad ogni partecipante venne proposto di confrontarsi con gli altri partecipanti e, in particolare, con le strategie che altri partecipanti avevano usato per aumentare le loro capacità di lettura veloce in versioni precedenti del test.
L, in altri test, avevano ottenuto punteggi peggiori dei nostri. Se da una parte queste scelte possono arrecare più o meno beneficio in base al livello di difesa della nostra autostima, al contempo, ci possono aiutare, in gradi molto diversi, a migliorarci: se mi rivolgo a chi è più bravo di me, infatti, ho alte probabilità di imparare qualcosa, mentre se mi rivolto ai peggiori queste probabilità si abbassano drasticamente.
Il nostro “mindset” fa la differenza
Anche qui ciò che fa la differenza sono i nostri atteggiamenti, il nostro “mindset”. I partecipanti indotti inizialmente a ritenere l’intelligenza come una qualità data e fissa decisero di confrontarsi con chi aveva ottenuto punteggi peggiori dei loro, mentre chi era stato spinto a considerare l’intelligenza una qualità malleabile scelse, in maggioranza, di confrontarsi coi migliori per imparare da loro.
I primi difendono la loro autostima giocando al ribasso, i secondi, invece, cercando di migliorarsi imparando dai più bravi (Nussbaum, D., Dweck, C. “Defensiveness Versus Remediation: Self-Theories and Modes of Self-Esteem Maintenance”. Personality and Social Psychology Bulletin 34, 2008, pp 599-612).
Riassumendo il significato di questi studi Carol Deck conclude in questo modo: “Nella mentalità fissa (fixed mindset), la perdita di autostima a causa del fallimento può essere un trauma permanente e ossessionante (…) Anche per chi ha una mentalità della crescita (growth mindset), il fallimento può essere un’esperienza dolorosa. Ma un’esperienza che non finisce per definire la sua identità. Il fallimento rappresenta solo un problema da affrontare e da cui imparare”.
Quante storie di fallimento, di cadute e di riprese, di impegno, di duro lavoro, di fragilità e di successo ci hanno fatto conoscere le Olimpiadi e ci stanno facendo scoprire le Paralimpiadi in queste settimane. Credo che l’insegnamento migliore che possiamo trarre dalle storie di tutti questi splendidi atleti e atlete è che il fallimento può coglierci sempre, in qualunque momento e per le ragioni più disparate.
Ciò che però ci dice chi siamo davvero non sarà tanto la medaglia che avremo vinto o no, ma che cosa avremo imparato dai nostri errori. Le Paralimpiadi, in particolare, ci stanno facendo scoprire tante storie di ragazzi e ragazze che sono diventati campioni non tanto “nonostante” la loro disabilità, ma proprio grazie ad essa. È una nota ricorrente delle loro dichiarazioni e dei loro ringraziamenti dopo le vittorie. Può essere una bellissima lezione anche per ciascuno di noi.