I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 18/07/2021
Secondo il fisico danese Niels Bohr, un esperto è qualcuno che ha commesso tutti gli errori che si possono compiere in un campo molto ristretto. La definizione è interessante anche se in italiano non rende bene quanto in inglese. L’inglese, infatti, ha due termini chiari per definire l’esito di un processo di apprendimento: da una parte abbiamo l’«experience» e dall’altra abbiamo, invece, l’«expertise». Il primo termine, che possiamo tradurre facilmente con «esperienza», indica quella conoscenza che otteniamo attraverso feedback ripetuti che ci indicano, attraverso un’operazione di associazione causa-effetto che, con una certa probabilità, a una determinata condotta seguiranno determinati effetti. Affinché questo processo abbia luogo è necessario che i feedback siano chiari, rapidi e numerosi.
La differenza tra «experience» ed «expertise»
Ma non è esattamente a questo genere di conoscenza che si riferiva Bohr quando definiva, a suo modo, un esperto. Non un soggetto con «experience», ma, piuttosto, uno dotato di «expertise»; termine che potremmo, in qualche modo, tradurre con «competenza». L’«expertise» denota quel tipo di conoscenza che si ottiene quando le persone non solo provano, sbagliano e imparano, ma quando cercano di sviluppare una «concettualizzazione strategica» di ciò che costituisce il processo decisionale razionale e imparano a riconoscere i fattori che possono limitare tale razionalità e sviare le loro scelte. Si tratta di acquisire una comprensione concettuale dell’anatomia delle decisioni e non solo di una dipendenza passiva da un processo di apprendimento ottenuto tramite una serie di tentativi ed errori.
Come si diventa «competenti»
La competenza richiede molto di più dei feedback. Necessita, infatti, di un monitoraggio vigile e di una consapevolezza costante rispetto ai nostri processi decisionali. Capire cosa stiamo facendo e perché. Uno dei vantaggi di questo genere di concettualizzazione strategica della scelta risiede nel fatto che, diversamente da quanto accade con l’esperienza, questo tipo di competenza, può essere facilmente trasferita da dominio a dominio e da persona a persona. Se si chiede a un esperto (a qualcuno con esperienza) quali sono i segreti del suo successo, non di rado ci sentiremo rispondere che le sue capacità e la sua intuizione si sono sviluppate attraverso un processo personale che non può essere insegnato, ma solo appreso direttamente. E questo non è del tutto sbagliato. Ciò, ovviamente, riduce la capacità di trasmettere quelle sue conoscenze ad altri. Ecco perché l’esperienza senza la competenza rappresenta un freno alla diffusione della conoscenza e una zavorra posta sulle spalle delle generazioni future.
Quando il fallimento porta alla competenza?
A questo riguardo sono illuminanti alcuni studi di Carol Dweck, psicologa dell’Università di Stanford. Quando e perché il rapporto con l’errore e il fallimento può facilitare l’acquisizione di conoscenze e competenze? È un processo nient’affatto scontato quello che ci porta dalla consapevolezza di aver sbagliato all’individuazione delle cause di tale errore e alla comprensione delle contromisure che dovremmo adottare per cercare di non ripetere lo stesso sbaglio in futuro. Questa era una delle domande fondamentali, anche se non esplicitamente dichiarate, al centro di un famoso esperimento condotto a metà degli anni Novanta dalla Dweck assieme alla sua collega Caroll Mueller. Venne selezionato un campione composto da 400 bambini di età compresa tra i dieci e i 12 anni, di cinque diverse scuole di New York. L’idea di base era quella di analizzare l’effetto delle diverse reazioni degli insegnanti ai successi e agli insuccessi dei piccoli studenti. La prima fase dell’esperimento prevedeva un semplice test di problem-solving. Dopo essere stati messi al corrente del loro punteggio, metà dei bambini, venivano lodati per la loro intelligenza («sei proprio sveglio») e l’altra metà, invece, riceveva un apprezzamento per lo sforzo profuso per superare il test («ce l’hai messa proprio tutta»). A questo punto veniva proposto ai bambini di partecipare ad un secondo test a loro scelta: ce n’era uno relativamente semplice, simile a quello appena terminato, e poi un altro un po’ più impegnativo ma che gli avrebbe dato la possibilità di mettersi alla prova e di imparare molto. Con grande sorpresa delle autrici dello studio che non si aspettavano un impatto così rilevante, il 90% dei bambini che erano stati lodati per il loro impegno decise di optare per il test più difficile, mentre quasi tutti quelli che avevano ricevuto una lode per la loro intelligenza scelsero il test più semplice. (Mueller, C., Dweck, C., 1998. Praise for Intelligence Can Undermine Children’s Motivation and Performance. Journal of Personality and Social Psychology 75, pp. 33-52).
Come interpretare il fallimento
Ciò che emerge da questo e da altri esperimenti condotti da Caroll Dweck e dai suoi colleghi è che i bambini elogiati per la loro intelligenza finiscono per scegliere sempre gli stessi problemi che gli consentono di continuare a ottenere buoni risultati, ma di imparare molto poco di nuovo. Al contrario, i bambini elogiati per il loro impegno tendono ad optare per problemi più complessi che, però, promettono maggiori opportunità di apprendimento. Questa conclusione è ulteriormente rafforzata dall’osservazione degli atteggiamenti che i bambini hanno tenuto successivamente ai test: i bambini lodati per l’intelligenza preferivano informarsi sulle prestazioni degli altri piuttosto che apprendere nuove strategie per risolvere i problemi del test, anche quando queste strategie avrebbero potuto migliorare le loro prestazioni future. I bambini elogiati per lo sforzo, invece, dimostrano maggiore interesse ad apprendere nuove strategie per risolvere i problemi presentati nel test. Porre l’accento sull’intelligenza può influire negativamente sulle risposte dei bambini in almeno due modi. Innanzitutto, l’elogio per l’intelligenza può portare i bambini a focalizzarsi esclusivamente verso la prestazione che diventa, in questo modo, il loro obiettivo motivazionale primario. Così, però, nel tentativo di ottenere prestazioni sempre all’altezza, si scelgono compiti più semplici e ripetitivi rinunciando, in questo modo, a preziose opportunità di crescita e apprendimento. In secondo luogo, elogiare l'intelligenza dopo una buona prestazione può far maturare nel bambino la convinzione l’intelligenza sia un tratto stabile e immutabile che influenza deterministicamente le performance. Questo implica anche che ogni fallimento futuro verrà interpretato esclusivamente come un segno e scarsa intelligenza di inadeguatezza personale.
L’impegno e l’intelligenza
Lodare i bambini per il loro impegno, produce effetti differenti. In primo luogo, aiuta a comprendere quali opportunità può offrire l’apprendimento di nuove abilità; un atteggiamento che è stato messo in relazione con un elevato livello di motivazione, persistenza, divertimento e resilienza. In secondo luogo, i bambini che imparano ad associare le buone performance al loro impegno capiscono presto che, siccome l’impegno non è fisso, ma può variare, allora un fallimento non necessariamente è un segno di una minorità personale o di un limite invalicabile, ma magari è solo dovuto ad una temporanea mancanza di impegno.
Così si diventa smart
Alla fine dell’esperimento, dopo che i bambini avevano partecipato al primo test, dopo che la metà di loro era stata lodata per l’intelligenza e l’altra metà per l’impegno, dopo che avevano scelto che tipo di secondo test avrebbero preferito fare, Claudia Mueller e Carol Dweck sottoposero i partecipanti a un’ultima prova. Il livello di difficoltà di quest’ultimo test era identico a quello del primo. Confrontando i risultati, però, le due psicologhe scoprirono che i bambini lodati per il loro impegno avevamo incrementato la loro performance in media del 30 percento, mentre i bambini lodati perché «svegli» avevano visto peggiorare il loro punteggio in media del 20%. Naturalmente questi meccanismi non valgono solo per i bambini di dieci anni ma, mutatis mutandis, anche per ciascuno di noi. Anche una piccola differenza come una frase di rinforzo e apprezzamento può far mutare completamente il nostro «mindset» nei confronti dell’errore e del fallimento. Se crediamo di dover dimostrare costantemente agli altri e a noi stessi quanto «smart», per non deludere le aspettative saremo indotti a sceglierci compiti facili e a porci obiettivi limitati. Al contrario, se pensiamo che ciò che conta è essersi impegnati e averci provato, allora saremo più aperti alla possibilità di fallire e imparare, perché ciò che più conta per noi è migliorare. Un imprenditore la cui impresa, in una contingenza complicata, è fallita, sarà, in alcune culture un fallito, mentre in altre, uno che ci ha provato e che magari ci riproverà.
La via per l’eudemonia
Quale atteggiamento impariamo ad avere nei confronti dei successi e, soprattutto, dei nostri errori e fallimenti influenza la nostra capacità di imparare da essi, la nostra abilità nel diventare competenti e non solo esperti. Se, come scrive Jonah Lerher, non siamo disposti a sperimentare la sgradevole sensazione di avere torto, il nostro cervello non correggerà mai i suoi modelli di apprendimento, proteggendoci, così da errori futuri facilmente evitabili (Come decidiamo. Codice Edizioni, 2009). Quello che le ricerche della Dweck e di molti altro hanno dimostrato è che l’idea che ciascuno di noi ha di sé stesso influenza profondamente il modo in cui condurremo la nostra vita. Adottare quello che viene definito il «fixed mindset» – faccio bene perché sono bravo o faccio male perché non valgo abbastanza - induce ad una costante competizione con noi stessi e con gli altri, a cui si associano una costante insoddisfazione e un persistente senso di frustrazione che indeboliscono, al contempo, la spinta al cambiamento. L’alternativa è rappresentata dal «growth mindset» – sbaglio perché forse non mi sono impegnato abbastanza, ma posso sempre migliorare – che si basa, per usare le parole della Dweck: «sulla convinzione che le tue qualità di base siano cose che puoi coltivare. Sebbene le persone possano differire in molti modi - nei loro talenti e attitudini, interessi o temperamento - tutti possono cambiare e crescere attraverso l’applicazione e l’esperienza». Questa idea di «coltivazione» è molto moderna e molto antica allo stesso tempo. Non è un caso, forse, che il termine aristotelico ευδαιμονία (eudemonia), tradizionalmente utilizzato per indicare la felicità, debba essere tradotto, più propriamente, con l’espressione «fioritura umana».