I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 20/06/2021
Il primo passo concreto verso il cambiamento si realizza nell'istante in cui si capisce che un cambiamento è necessario. Solo da questa intima convinzione potrà, poi, avviarsi il processo di innovazione, miglioramento e sviluppo volto a superare gli errori del passato e ad instaurare nuove pratiche e abitudini e a ridurre quei bias cognitivi che, tanto spesso, sviano i nostri giudizi e influenzano negativamente le nostre decisioni. E questo vale sia a livello personale che organizzativo, sia sul piano individuale che su quello collettivo.
Ma una volta compiuto il primo passo – aver compreso la necessità di agire – il cammino verso l'effettivo cambiamento sarà solo all'inizio. Il passo successivo, necessario e complicato quanto il primo, riguarda la disponibilità concreta a cambiare. Non basta, infatti, sapere che c'è qualcosa che non va nei nostri modi di fare e di valutare o nei processi decisionali all'interno delle nostre organizzazioni; ciò è necessario ma non sufficiente; occorre, infatti, anche predisporsi fattivamente a cambiare le cose.
L’avversione al rischio non porta sempre alla scelta migliore
Mettersi in gioco in questo senso può essere molto complicato, perché, innanzitutto, significa ammettere di aver sbagliato nel passato. E ammettere i nostri errori a noi stessi e agli altri – lo sappiamo bene – non è mai semplice. Per favorire questo passaggio gli specialisti di scienze comportamentali ritengono necessario procedere con un vero e proprio “scongelamento” (unfreezing) delle vecchie abitudini e delle vecchie pratiche. Solo dopo aver reso consapevole e, in qualche modo malleabile, la persona o l'organizzazione, infatti, si può procedere con l'apprendimento e l'instaurazione di procedure e modalità nuove.
L'ostacolo principale, in questa fase, deriva da un misto di avversione al rischio, di amore per lo status quo e una netta preferenza per ciò che produce risultati certi rispetto a ciò che ci pone di fronte all'incerto. Tutti noi preferiremmo ottenere 100 euro sicuri, piuttosto che giocare una lotteria che potrebbe farcene vincere 200 al 50% o niente, con la stessa probabilità. È la stessa logica che sta dietro il grande successo della pratica commerciale dell'estensione delle garanzie. Le carte di un processo intentato anni fa contro la Nissan hanno rivelato che la tipica estensione della garanzia costava 795 dollari all'acquirente dell'auto; somma che per 131 dollari andava a coprire i costi medi di riparazione, altri 109 dollari rappresentavano i costi amministrativi e i restanti 555 dollari sono risultati essere puro profitto (Bazerman, M., Neale, M., “Negotiating Rationally”. Free Press, 1993). Eppure, nonostante questi siano tipicamente i valori in gioco, la nostra avversione al rischio ci spinge a scelte che ci rassicurano, ma che al contempo ci impoveriscono.
L’amore per lo status quo può essere una trappola
Veniamo alla preferenza per lo status quo. In una ricerca pubblicata qualche anno fa, Shlomo Benartzi, esperto di finanza comportamentale, assieme al premio Nobel Richard Thaler, hanno analizzato le scelte di investimento di un campione di professori universitari e hanno scoperto che la maggior parte di loro aveva deciso di allocare i loro fondi pensione per metà in obbligazioni e per l'altra metà in azioni. Una regola di diversificazione piuttosto ingenua. Ma la cosa forse che più sorprende dei risultati dello studio è che, dal momento dell'investimento per tutti gli anni a seguire, la mediana del numero di cambiamenti a questo assetto allocativo è stata pari a zero. La stragrande maggioranza dei professori, decenni prima, aveva scelto di allocare i propri risparmi usando una regola piuttosto elementare – 50%-50% - regola che poi ha continuato a seguire per i decenni successivi nonostante le infinite variazioni intervenute nel mercato azionario che avrebbero potuto far rendere i loro risparmi decisamente di più (“Naive diversification strategies in defined contribution saving plans”. American Economic Review, 91, pp. 79–98, 2001).
Altre tre buone ragioni per lo “scongelamento”
Oltre alla combinazione di “avversione al rischio”, “status quo bias” ed “effetto certezza”, ci sono almeno altre tre buone ragioni per operare attraverso un percorso di “unfreezing”. Alla prima abbiamo già accennato: ammettere i propri errori è doloroso e questo, a volte può indurci, consciamente o inconsciamente, a perseverare pur di non affrontare questo passo complicato.
In secondo luogo, è importante notare che il cambiamento può essere particolarmente complesso proprio per chi ne ha più bisogno, perché magari si trova ad occupare posizioni di responsabilità. In questi casi, come ci insegna la teoria del condizionamento operante, sono proprio i successi ottenuti e le posizioni di prestigio raggiunte a rinforzare i soggetti in quei comportamenti e atteggiamenti che, secondo loro, li avrebbero fatti arrivare là dove sono arrivati ma che, magari invece, sono probabilmente distorti, fuorvianti e per nulla efficaci.
Il terzo elemento, infine, è connesso al precedente ed ha a che fare con la dissonanza cognitiva: le nostre azioni e le nostre credenze devono essere coerenti. L'incoerenza produce una dissonanza che ci fa star male e che, pur di ridurla, può indurci a cambiare sottilmente le nostre credenze invece che le nostre azioni. Per chi ha raggiunto posizioni apicali e di responsabilità in ogni genere di organizzazione anche solo ipotizzare che possa esserci qualcosa di sistematicamente sbagliato nei suoi processi decisionali si scontrerebbe con la consapevolezza del successo raggiunto. Questo, naturalmente, immunizza anche solo dal sospetto che possa esserci qualcosa che non va.
L’importanza di dire “non lo so”
Lo “scongelamento”, dunque, è una fase cruciale ma molto delicata perché si tratta, essenzialmente, di metterci di fronte alle nostre vulnerabilità e fragilità, rinunciare alle nostre difese, spogliarci davanti a noi stessi o peggio ad altri che, anche con le migliori intenzioni, rappresentano, sempre, un collegio giudicante. Un aiuto, in questo senso, può arrivare certamente dalla consapevolezza, che abbiamo più volte richiamato in questi interventi di “Mind the Economy”, del fatto che l'errore è inevitabile e che sbagliare non è altro che un effetto collaterale del prendere decisioni corrette. Paradossalmente non potrebbero esserci queste ultime senza la possibilità di sbagliare. Questa consapevolezza se da una parte dovrebbe indurci all'umiltà, dall'altra dovrebbe anche sostenere e rinforzare uno sguardo di benevola comprensione innanzitutto verso noi stessi e, più in generale, verso gli altri.
Nel suo discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura, il 7 dicembre del 1996, la poetessa polacca Wislawa Szymborska, parlando a proposito de “Il poeta e del mondo”, conclude in questo modo: «L’ispirazione non è privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e ci sarà sempre un certo gruppo di persone visitato dall’ispirazione. È quel gruppo composto da tutti coloro che hanno scelto la propria vocazione e svolgono il proprio lavoro con amore e fantasia. Può includere medici, insegnanti, giardinieri e potrei elencare un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può essere un'avventura continua finché riusciranno grazie ad esso a scoprire nuove sfide. Difficoltà e battute d’arresto non placheranno mai la loro curiosità. Uno sciame di nuove domande emergerà da ogni problema risolto. Qualunque cosa sia l’ispirazione, dunque, essa nasce da un continuo “non lo so”». Ecco, dunque che l'accettazione matura di tutti i nostri “non lo so” può farsi processo generativo di “consapevolezza, amore, fantasia” e cambiamento.