I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 02/05/2021
La vostra squadra del cuore ha iniziato un importante torneo internazionale. Come andrà la prima partita? Un vostro amico, non troppo interessato al calcio, vi dice con una certa dose di sicumera, di non preoccuparvi, la vostra squadra vincerà con certezza. Il giorno dopo la vostra squadra vince. In occasione della successiva partita si ripete, più o meno, la stessa scenetta. Il vostro amico, però, questa volta è convinto che la vostra squadra perderà. E così sarà, infatti. Per la terza partita, invece, il pronostico è favorevole, e anche questa volta ci azzecca: la vostra squadra vince.
Un amico che vale un tesoro
C’è, naturalmente, una quarta partita e una quinta e anche in questo caso l’amico ci vede giusto. La vostra squadra vince e arriva in semifinale. Qui, di nuovo, il vostro amico è pessimista e prevede una sconfitta. E purtroppo sconfitta sarà. C’è la finale per il terzo posto, il pronostico è favorevole e infatti la vostra squadra del cuore vince e si classifica terza. Per sovrappiù il vostro amico emette un verdetto anche su chi vincerà il torneo e, regolarmente, ci prende anche questa volta. Otto previsioni corrette su otto partite. Un genio. Il sogno di ogni bookmaker. Un amico così vale davvero un tesoro. E quando, infatti, la notizia di questa preveggenza si diffonde, iniziano ad arrivare le offerte economiche. Un bookmaker russo vi offre centomila euro per convincere il vostro riottoso amico a lavorare per lui. Voi rifiutate. Il russo aumenta la posta. Arriva a offrirvi trecentomila euro per convincere il vostro amico. Ma voi rifiutate comunque.
L’investitore geniale
Nel suo “You’re about to make a terrible mistake”, Olivier Sibony racconta un’altra storia di strabiliante successo, quella del gestore di fondi, Bill Miller. Miller, dagli anni ’90 in poi si è costruito una solidissima reputazione. Un investitore geniale capace di battere il mercato per ben quindici anni di seguito. I soldi gestiti da Miller hanno generato rendimenti maggiori della media delle S&P500, invariabilmente, per ogni singolo anno dal 1991 e il 2005. Una performance straordinaria che ha valso a Miller una reputazione stellare. Morningstar Inc. lo elegge “Fund manager del decennio”.
C'è poi il caso di Leonard Koppett, un editorialista e commentatore americano di origini russe che nel 1978, propose un metodo per prevedere già a gennaio, l’andamento del mercato per tutto il resto dell’anno. Ricorda Leonard Mlodinov, il fisico della Caltech, che Koppett fu in grado di prevedere correttamente un mercato crescente (bull) o decrescente (bear) per tutti gli anni tra il 1979 e il 1989. Sbagliò solo nel 1990 ma poi riprese ad azzeccare le sue previsioni fino al 1998.
Le tre storie sono tutte e tre vere, solo che nella prima il vostro amico è un polpo e nella seconda ciò che sembra una performance eccezionale in realtà non lo è poi tanto, e nella terza il commentatore era sì un giornalista, ma un giornalista sportivo e le sue previsioni si basavano sulle squadre che a gennaio vincevano il Super Bowl: una squadra della American Football Conference avrebbe indicato un mercato ribassista mentre una della National Football Conference faceva prevedere un mercato al rialzo.
Vi ricordate il polpo Paul?
Che senso ha tutto questo? Proviamo ad andare per ordine, partiamo dal polpo che non è proprio un polpo qualunque, è “Paul il Polpo” e le partite il cui esito viene previsto sono quelle disputate dalla nazionale della Germania durante i mondiali del 2010 in Sudafrica. Otto previsioni corrette su otto. Non può essere un caso. La probabilità di una tale sequenza è pari alla probabilità di ottenere una fila di otto “testa” o di otto “croce” lanciando una moneta solo otto volte e, cioè, è uguale a 0,4%. I polpi sono animali intelligentissimi – questo si sa – ma l’esperienza con il calcio da dove può derivare? Come possiamo spiegare questo risultato eccezionale. Possiamo farlo cercando di andare un po’ più a fondo nelle storie di Leonard Koppett e di Ben Miller. Su quella di Koppett c'è, in verità, poco da dire: era guidato esclusivamente dalla fortuna.
Se cercate “Super Bowl Indicator” su Google, troverete, tra le altre cose, che il sito Investopedia, riporta l’avvertenza: «Come mezzo previsionale, il Super Bowl Indicator è totalmente irrilevante. Non c’è ragione per credere che la squadra vincitrice di una partita di football determini la performance del mercato azionario». Su questo dovremmo essere tutti d’accordo.
La questione di Bill Miller è un po' più complessa. Quando gli esperti del Credit Suisse cercarono di stimare le probabilità che Miller avesse azzeccato le sue previsioni per puro caso arrivarono a probabilità comprese tra 1 su 4096 e 1 su 2,2 miliardi. Nel migliore dei casi stiamo parlando di possibilità assolutamente remote. Se ne poteva ricavare che Miller fosse un vero e proprio genio. In realtà non lo era. Perché l’esatta probabilità che le sue previsioni fossero verificate per puro caso era pari ad un più modesto e decisamente meno impressionante 75%, 3 volte su 4.
Risultati sorprendenti
Il risultato di Miller, come quello di Koppett e perfino del polpo Paul, ci appaiono sorprendenti a causa della nostra naturale incapacità a gestire il pensiero probabilistico. Non è una questione di conoscenza o ignoranza, ma piuttosto di evoluzione cognitiva. Sono le nostre meravigliose doti psicologiche che, in alcune circostanze, ci inducono clamorosamente in errore. In questo caso gli esperti parlano di “hot-hand fallacy”, la fallacia della mano calda, facendo riferimento a quel fenomeno, tipico del gioco del basket, secondo cui se un giocatore ha già infilato un certo numero di canestri, ha una probabilità maggiore degli altri giocatori, di continuare a segnare, per cui faremmo bene a passargli sempre più spesso la palla.
Tutti i dati ci dicono che questo fenomeno non esiste, eppure tifosi, allenatori e giocatori, continuano ad esserne convinti e a comportarsi di conseguenza. Per capire cosa questo abbia a che fare con le strabilianti performance finanziarie di Bill Miller occorre considerare che se, effettivamente, valutassimo la possibilità che un singolo manager, a partire da un singolo anno, possa battere il mercato proprio nei quindici anni successivi, questa probabilità sarebbe incredibilmente bassa. Questo è il modo in cui noi, in genere, vediamo situazioni di questo tipo; Miller come Koppett, così come il polpo Paul. Ma le cose non stanno esattamente così, perché Miller non era mica l’unico gestore a cercare di prevedere l’andamento del mercato, così come non lo era Koppett, così come Paul non era l’unico animale a cui veniva chiesto di pronosticare il risultato delle partite del mondiale di calcio del 2010. Conosciamo solo le loro storie perché sono storie di successi.
Un quadro incompleto
Non conosciamo le storie di tutti gli altri che invece hanno fallito. In realtà si sa di criceti, tartarughe, mucche e perfino di elefanti che vennero addestrati all’uopo. Ma nessuno di questi è diventato famoso come Paul il polpo, perché le loro prestazioni si sono rivelate più che mediocri. Allo stesso modo, quanti Leonard Koppett e quanti Bill Miller non hanno mai raggiunto la notorietà perché i loro metodi bizzarri non hanno mai avuto un successo degno di nota? Cerchiamo di mettere le cose nella giusta prospettiva. Davvero Miller si merita la reputazione che gli è stata attribuita? Davvero la sua abilità era così straordinaria? Davvero - e questa è la domanda chiave di tutta la questione - facciamo bene a valutare la bontà di una decisione esclusivamente dai suoi risultati? Andando un po’ più a fondo potremmo scoprire che nel 2004 il fondo gestito da Miller guadagnò un rispettabile 12% contro, però, il 15% della media S&P500.
Eppure, in quell’anno, la performance di Miller viene considerata come positiva perché lo S&P500 è calcolato come una media ponderata sulla base della capitalizzazione di ognuna delle aziende rappresentate. Questo vuol dire che, se anche i prezzi in generale scendono, Miller può risultare vincente perché, casualmente, salgono i prezzi di poche grandi aziende. Durante tutti gli anni presi in considerazione, poi, ci furono più di trenta periodi di dodici mesi ciascuno, nei quali la performance del fondo di Miller risultò inferiore allo S&P. Ma questi periodi non coincidevano con l’anno solare 1° gennaio - 31 dicembre e quindi non venivano contabilizzati, per così dire. È lo stesso Miller che a un certo punto riconosce che il calendario gli ha dato una mano.
Tenendo conto di queste ulteriori informazioni di contesto e del fatto che non dovremmo considerare solo il fondo di investimento di Miller, ma anche tutti gli altri e non solo i quindici anni considerati da Miller, ma ogni sequenza possibile di quindi anni consecutivi. Supponiamo di avere solo mille gestori di fondi - ipotizza Mlodinow - e che ognuno di essi lanci una moneta una volta all’anno a partire dal 1991.
Nel primo anno, circa la metà di loro avrebbe ottenuto “testa”. Nell’anno successivo un quarto avrebbe ottenuto due volte “testa”. Nel terzo anno il numero di coloro che ha ottenuto tre volte “testa” sarebbe sceso ad un ottavo. Andando avanti di questo passo la probabilità che un singolo gestore possa ottenere quindici “testa” - i risultati positivi di Miller - sarebbe pari a 1 su 32.768. Piuttosto bassa. Ma la probabilità che 1 gestore sui 1.000 gestori di fondi che stanno contemporaneamente lanciando le stesse monete sarebbe, invece, pari al 3%. Una probabilità decisamente più alta.
E perché limitarci a quelli che hanno iniziato a lanciare le monete nel 1991? Se provassimo a considerare tutti quelli che avrebbero potuto iniziare a lanciare monete (cioè a gestire fondi) dagli anni ’70 in avanti, questa probabilità aumenterebbe fino alla sorprendente soglia del 75%. C’erano 3 probabilità su 4 che qualcuno dei gestori di fondi finisse per ottenere le stesse “strabilianti” performance di Miller. Era bravo? Di sicuro. È stato fortunato? Sicuramente. Lo riconosce lo stesso Miller, del resto, quando afferma che «forse non è stata solo fortuna al 100%, ma certamente al 95%».
Il ruolo della fortuna
Quando parliamo di errori e di buone decisioni siamo naturalmente portati a giudicare sulla base dei risultati; gli alberi dai frutti. Questa può essere un’abitudine molto pericolosa e perfino ingiusta, perché molto spesso, molto più spesso di quanto siamo disposti ad ammettere, i nostri meriti derivano dal caso, dalla fortuna.
Non sto certamente suggerendo di eliminare il concetto di responsabilità. Sto solamente suggerendo che dietro il successo o il fallimento può esserci qualcosa di più del merito individuale. Purtroppo, la retorica che governa le nostre organizzazioni e, spesso la nostra società, ancora oggi non riconosce questo fatto e ci trasporta in una dimensione illusoria di premi e di punizioni, spesso ugualmente immeritati. Come ci ricorda il premio Pulitzer Nicholas Kristof, il lato oscuro di questa illusione è che quelli che dimenticano il ruolo che la fortuna ha avuto nel guadagnargli i loro privilegi, spesso, sono gli stessi che dimenticano gli svantaggi che hanno penalizzato gli altri.
«Il risultato - continua Kristof - è una meschinità o, nella migliore delle ipotesi, una mancanza di empatia verso coloro che faticano a sopravvivere, che si traduce nell’opposizione ai programmi di sanità pubblica, ai sussidi di disoccupazione o all’aumento del salario minimo per stare al passo con inflazione. Alcuni pensano che il successo dipenda dalle “scelte” e dalla “responsabilità personale”. In parte è vero. Ma è anche vero che se i figli dei ricchi fanno scelte sbagliate, semplicemente, non subiscono le stesse conseguenze dei figli dei poveri». Valutare la bontà di una decisione dalle sue conseguenze può essere una buona regola generale che non dovrebbe mai farci dimenticare le numerose eccezioni.