L’anima e la cetra/16 - L’<immortalità seconda> dei beni accumulati e la via della fraternità
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 12/07/2020
"Dantès, che tre mesi prima non aspirava ad altro che alla libertà, ora non si accontentava più della libertà e aspirava alla ricchezza; la colpa non era di Dantès ma di Dio che, limitando la potenza dell’uomo, ha suscitato in lui desideri infiniti!"
Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo
Il Salmo 49 ci porta a riflettere sulla natura della ricchezza e sulla sua promessa di vita eterna, che, se ben intesa, non è totalmente falsa.
Desideriamo la ricchezza perché aumenta la libertà. Tra le libertà “comprate” dalla ricchezza quella più affascinante e tentatrice è la libertà dalla morte e dalla sofferenza. Sta qui la radice della natura religiosa della ricchezza, che può diventare per noi un idolo perché ha tratti che la fanno somigliare alle divinità. Nel Vangelo è stato Gesù stesso a metterla in concorrenza con Dio, perché promette una sua diversa immortalità. Nell’Eden Elohim non proibì all’Adam i frutti dell’albero della vita perché quella proibizione sarebbe stata inefficace, tanto è forte negli uomini e nelle donne il desiderio di immortalità. La ricchezza ci attrae perché ci appare come ciò che sulla terra più assomiglia all’elisir dell’eterna giovinezza. Eros (amore) e plutos (ricchezza) sono i due dèi che, ciascuno nel suo modo, non hanno mai smesso di combattere thanatos (morte).
La promessa della ricchezza esercita, infatti, su di noi un fascino quasi invincibile perché, come la promessa del serpente, non è interamente falsa. Il ricco è meno esposto alle vulnerabilità dell’esistenza, vive in case più sicure, ha accesso a cure migliori. Anche per questa ragione nella Bibbia e in molte culture l’essere ricco è considerato una benedizione di Dio – non a caso usiamo l’espressione “beni”, cioè cose buone.
La potenza religiosa della ricchezza cresce con l’estensione dell’area della vita sociale coperta dal denaro, che è sempre stata vasta. Anche in una società pre-moderna la ricchezza fuoriusciva dall’ambito tipicamente economico fino a sfiorare il paradiso e il purgatorio (il mercato delle indulgenze). Non dobbiamo infatti pensare che la ricchezza conti molto solo in una economia di mercato: il denaro era già dio ben prima del capitalismo. Perché in un mondo con scarsa circolazione della moneta, con la ricchezza concentrata in pochissime mani gelose, il potere sovrannaturale del denaro era maggiore di oggi. Se da una parte l’aumento delle aree sociali coperte dai mercati fa aumentare l’importanza della moneta (se con la moneta compri quasi tutto la moneta diventa quasi tutto), dall’altra la sua più ampia diffusione in molte mani la riduce; e così non è facile calcolare la somma algebrica di questi due effetti di segno opposto. L’avarizia, l’avidità, l’indivia nei confronti dei ricchi non erano nel Medioevo inferiori a oggi, e le dinamiche sociali dietro ai denari di Giuda, alle dracme e ai talenti non erano troppo diverse da quelle dietro ai nostri euro – lo sviluppo dei mercati non riduce l’invidia sociale, ma la orienta in sentieri meno dannosi. Ecco perché l’etica economica biblica non ha perso nulla della sua capacità di parlarci oggi del nostro lavoro, delle nostre ricchezze e delle nostre povertà: <Porgerò l'orecchio a un proverbio, esporrò sulla cetra il mio enigma … C’è chi nel proprio denaro confida, e vanta le ricchezze sterminate. Ma il riscatto di Dio non lo si compra, troppo caro sarebbe il riscatto di una vita> (Salmo 49, 5-8).
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