Sarebbe davvero una grande occasione persa se l’economia uscisse da questa crisi come era all’inizio del 2020. Tre cose, almeno, dovremmo averle imparate.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 07/05/2020
«Niente sarà più come prima». Si sente dire spesso in queste settimane. Speriamo tutti che cambi il modo politico e sanitario di affrontare e prevenire le emergenze globali. Non è, però, affatto detto che cambi il modello economico o il capitalismo. Ci attendono mesi di seria crisi economica, soprattutto in alcuni settori che più dipendono dalla mobilità, come turismo, ristorazione, cultura… Ma l’impressione crescente è che la gente non percepisca questa grave crisi anche come una crisi dello stile di vita capitalistico. Sarebbe però davvero una grande occasione persa se l’economia uscisse da questa crisi come era all’inizio del 2020. Perché alcune cose dovremmo averle imparate.
Innanzitutto non tutti i Paesi hanno risposto allo stesso modo. La Germania la Francia e alcune regioni d’Italia dove ancora esiste una sanità pubblica non smantellata hanno retto molto meglio della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e del modello misto pubblico-privato della Lombardia. Abbiamo capito che una sanità pubblica e capillare nei territori non era un retaggio feudale, ma una sorta di assicurazione collettiva contro i grandi rischi. Che il mercato capitalistico funziona benino per le cose semplici e nei tempi ordinari, ma è inadeguato per le crisi e per le gravi emergenze. Perché? In questi anni di ideologia neoliberista quasi tutti gli Stati hanno tagliato le spese sanitarie, hanno ridotto (tranne la Germania) i posti letto per la terapia intensiva, e hanno gestito anche la sanità come fosse un’impresa, quindi sottoposta alla legge costi-benefici: se un investimento non rende nei tempi e nei modi del capitale, non si fa. I manager che portano avanti i grandi ospedali (sempre più grandi e sempre in minor numero) si formano come i manager di tutte le imprese. E così non si applica un principio base della dottrina sociale della Chiesa: il principio di precauzione, che dice di assicurarsi collettivamente per eventi rari ma molto dannosi. Ci assicuriamo per ogni incertezza, ma il capitalismo non assicura se stesso dalle grandi crisi. E questo è sciocco.
Inoltre, gli aiuti alle imprese sarebbe bene fossero sottoposti a delle forme di condizionalità. Una, importante, riguarda la distribuzione dei dividendi ai soci: se le imprese grandi riceveranno aiuti devono impegnarsi a non distribuire dividendi o a distribuirne molto pochi. Vale a dire: se quando ci sono le grandi crisi le imprese vengono aiutate dagli Stati per non fallire – lo abbiamo visto con le banche durante la recente crisi finanziaria –, perché i fallimenti sarebbero devastanti per tutti, allora nei tempi ordinari le imprese devono accumulare ricchezza da usare nei tempi di crisi. Gli azionisti non possono mungere le imprese nei tempi delle vacche grasse e ricorrere alla fiscalità generale nei tempi delle vacche magre, che saranno sempre più frequenti in un’economia globalizzata e fragile. Anche perché le tasse (negli Stati a elevata evasione come l’Italia) le pagano in massima parte famiglie e lavoratori dipendenti, tasse che poi vengono usate per aiutare le imprese i cui dividendi finiscono in massima parte a banche e a soggetti benestanti.
Infine, questa crisi dovrebbe essere l’occasione per introdurre comitati etici in tutte le imprese medio-grandi e in tutte le banche e istituzioni finanziarie, perché vigilino sulla loro condotta etica anche nei tempi ordinari. Occorre far sì che le imprese siano gestite diversamente, con sostenibilità ambientale e reddituale, che non siano le trimestrali a comandare ma il medio e il lungo periodo. Altrimenti attenderemo che arrivi la prossima crisi e saremo ancora impreparati.
© Giuliano Dinon / Archivio MSA