Mind the economy

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Immanuel Kant e le contraddizioni della meritocrazia

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 29/10/2023

La devozione di Immanuel Kant all’idea di libertà è totale. Lo è al punto da generare in lui una vera e propria identificazione tra il concetto di libertà e quello di giustizia. La sua teoria della giustizia è, infatti, una vera e propria teoria del diritto (Rechtslehre) nella quale viene descritta come giusta una società che si dota di un corpus di norme capaci di stabilire e proteggere la libertà del singolo e la sua compatibilità con la libertà di tutti gli altri membri dello Stato.

In questo quadro, una limitazione della libertà del singolo, attraverso un’azione coercitiva, può essere legittima solamente se volta alla tutela di questa compatibilità. Le declinazioni che tale ideale trova nel pensiero del filosofo tedesco sono molteplici: innanzitutto, quella dei tre principi costituzionali di libertà civile, di eguaglianza giuridica e di libertà politica. Un’ulteriore specificazione viene elaborata nel saggio “Sul detto comune” (1793) dove Kant sottolinea anche l’importanza della libertà di espressione delle qualità individuali. Ogni cittadino, scrive il filosofo “Deve poter raggiungere dal punto di vista del ceto ogni grado, nel corpo comune, al quale il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna lo possano condurre”.

Merito e mobilità sociale

Una visione meritocratica della società ed una aspirazione alla mobilità sociale che Kant ritiene necessario proteggere contro un regime di privilegi aristocratici che, come nella Francia della vénalité, riserva le cariche più alte del governo a chi è in grado di acquistarne l’accesso attraverso il denaro o il potere.

Ogni cittadino, invece, sostiene Kant, deve poter essere premiato sulla base del suo “talento” e della sua “operosità” e nessuno, continua il filosofo, può essergli d’intralcio “con una prerogativa ereditaria (come privilegiati ad un certo ceto), al fine di tenere in eterno sottomessi lui e la sua discendenza. Siccome la nascita - continua Kant - non è un atto di colui che nasce, da essa non può derivare alcuna diseguaglianza dello stato giuridico e alcuna sottomissione a leggi coattive, se non a quelle che egli, come suddito dell’unico supremo potere legislativo, ha in comune con ogni altro”.

Questa uguaglianza nella libertà sembra prevedere, dunque, l’uguaglianza delle opportunità di crescita sulla base del talento e dell’impegno attraverso una competizione equa.

Una competizione che le prerogative di nascita non possono in alcun modo falsare. E, infatti, continua ancora il filosofo “Nessuno può dare in successione la prerogativa di ceto che egli possiede nel corpo comune ai suoi discendenti, quasi fosse qualificato per nascita al ceto dei signori, né può impedire a tale suddito, con la costrizione, di riuscire con il proprio merito ai più alti gradi della gerarchia sociale”.

Fortuna come fonte di opportunità

La difesa assoluta dall’interferenza dei privilegi di nascita della possibilità di crescita e di sviluppo dei talenti individuali si indebolisce e diventa ambigua, però, quando Kant cerca di farla coesistere con due elementi fondamentali del suo sistema liberale e cioè l’ereditarietà della proprietà e, più in generale, la legittimità delle differenze generate dalla “fortuna”. Come abbiamo visto, accanto al talento e all’impegno, si fa riferimento esplicito alla fortuna come ad una fonte di opportunità che è giusto sfruttare per emergere e raggiungere i più alti gradi della gerarchia sociale.

Nel particolare, una manifestazione di tale fortuna, è la lotteria della nascita. Se è vero che i privilegi non possono essere trasmessi per via ereditaria, tutto il resto, invece, può essere ereditato. Ogni cosa che “in quanto proprietà, può essere acquistato e anche alienato, e che così può produrre in una serie di discendenti una considerevole diseguaglianza di condizioni tra i membri del corpo comune (del salariato e dell’affittuario, del proprietario terriero e del servo agricoltore, ecc.)”.

L’ereditarietà della ricchezza e delle proprietà, dunque, anche se capaci di generare la più grande disuguaglianza non può essere in alcun modo limitata. Solamente, si premura di puntualizzare Kant, tali diseguaglianze non possono impedire che tutti i cittadini “quando il loro talento, la loro operosità e la loro fortuna glielo rendano possibile, abbiano la possibilità di sollevarsi alle medesime condizioni”. Mentre l’ereditarietà dei privilegi di ceto rappresenta per il filosofo tedesco un potenziale rischio per la libertà e l’uguaglianza delle opportunità, la trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze economiche, invece, non pone nessun problema, come se da queste non derivassero diseguaglianze di potere capaci di generare una compressione negli spazi di libertà dei ceti più umili e limitazioni nel godimento reale di una condizione di parti opportunità.

Su questo punto, ha fatto notare propriamente lo storico Anthony La Vopa, come Kant faccia dell’ingiustizia una questione di intenzioni individuali più che di struttura sociale. “La ‘buona fortuna’, come il ‘talento’ e l’‘operosità’, dà diritto a un particolare rango sociale e include la ‘proprietà esterna fortuita’. Mentre il godimento ereditario del privilegio legale implica una forma illegittima di coercizione collettiva, l’eredità della ricchezza non comporta coercizione morale” (Grace, Talent, and Merit. Cambridge University Press, 1998).

Diseguaglianze e ricerca della felicità

Questa era una posizione largamente accettata, anche se non in maniera unanime, dai riformatori dell’epoca. “La letteratura riformatrice – continua La Vopa - anche nella sua forma più radicale, non ha concluso che l’introduzione dell’uguaglianza giuridica delle opportunità fosse incompatibile con la sopravvivenza della proprietà privata come principio di organizzazione sociale, o addirittura con la sopravvivenza della proprietà privata come principio di organizzazione sociale.

Alcuni riformatori, certo, accettarono con riluttanza il divario tra un’élite possidente e una massa di non possidenti, come un fatto sociale deplorevole ma inamovibile; non condividevano la fiducia di Kant secondo cui i vantaggi ‘fortuiti’ della ricchezza lasciavano gli altri liberi di perseguire la propria felicità”. Tale fiducia, tra le altre cose, si fonda sull’ipotesi secondo cui il talento e la volontà, lungi dall’essere ereditari, devono generalmente essere acquisiti e sviluppati dai soggetti stessi.

Questo fatto finisce con l’attribuire legittimità a tutti quei vantaggi e privilegi individuali originati dal talento e dalla superiore volontà dei singoli. A riguardo la principale preoccupazione di Kant è che questi vantaggi e privilegi possano essere alla portata di chiunque abbia talento e volontà e che non siano limitati da coloro che quei vantaggi e quei privilegi li hanno ottenuti per nascita.

Ma come fa giustamente notare la filosofa Sylvie Loriaux, questo non significa che lo Stato abbia il dovere di rimuovere attivamente quegli ostacoli che impediscono a tutti i cittadini di godere di pari opportunità e di pari condizioni di partenza. Quando Kant afferma “che ciascuno dovrebbe «potere salire dalle cariche più basse a quelle più alte» o che a nessuno dovrebbe essere impedito da un altro «di raggiungere con il proprio merito i gradi più alti della gerarchia sociale», ciò che egli intende [è] che a nessun soggetto in possesso delle qualifiche necessarie dovrebbe essere impedito di raggiungere una posizione sociale più elevata” (Kant and Global Distributive Justice. Cambridge University Press, 2020).

Ecco, la questione, ancora oggi, è tutta qui. Possiamo davvero affermare in tutta franchezza che le diseguaglianze nella distribuzione del reddito, delle proprietà, delle relazioni, del potere, non limitano le concrete opportunità di crescita e di realizzazione di chi si trova in una condizione di svantaggio? La loro possibilità, per usare le parole dello storico, “di perseguire la propria felicità”?

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