I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 12/05/2024
Nella primavera del 1969 John Rawls tenne un corso di filosofia ad Harvard intitolato “I Problemi di guerra” nel quale trattava questioni relative allo jus ad bellum e allo jus in bello con particolare riferimento al coinvolgimento degli USA nella guerra in Vietnam. Dopo poco il corso venne cancellato a causa di uno sciopero degli studenti. Questo piccolo episodio ha molto da insegnarci. In primo luogo, che è sempre necessario dialogare con il futuro, il quale, che piaccia o no ai conservatori, è rappresentato dai giovani studenti e non da loro stessi. Il secondo tema è quello relativo al ruolo che la filosofia politica deve avere nel chiarificare questioni complicate come la guerra, il diritto alla difesa, la proporzionalità della risposta, la tutela dei civili, solo per fare qualche esempio. Davanti alle guerre d’oggi dov’è questo pensiero? Rawls affrontava questi temi nel suo corso del 1969. Quanto sarebbero attuali le sue considerazioni oggi, davanti all’invasione dell’Ucraina e rispetto alla spropositata reazione di Israele all’abominevole attacco di Hamas? Chiaramente la domanda è retorica è la risposta è “moltissimo”.
Il grande tema di una vita
"Per ‘Diritto dei Popoli’ – scrive Rawls - intendo una particolare concezione politica del diritto e della giustizia che si applica ai principi e alle norme del diritto e della pratica internazionale. Con il termine ‘società dei popoli’ intendo tutti quei popoli che nei loro rapporti reciproci seguono gli ideali e i principi del diritto dei popoli. Questi popoli hanno i propri governi interni, che possono essere costituzionali liberali democratici o governi non liberali ma decenti. In questo libro mi occupo di come il contenuto del Diritto dei Popoli potrebbe essere sviluppato a partire da un’idea liberale di giustizia simile, ma più generale, all’idea che ho chiamato giustizia come equità”. In questo modo si apre Il Diritto dei Popoli, il terzo e ultimo libro scritto da John Rawls e pubblicato nel 1993. Contiene il suo tentativo di applicare la teoria della giustizia, il grande tema della sua vita, oltre i confini nazionali, alla convivenza tra popoli in una prospettiva che diverrà nota come teoria della giustizia globale. Rawls non è stato il primo ad inaugurare questa linea di pensiero e a far scavalcare le frontiere statali alle esigenze di una moralità divenuta capace di superare le distanze geografiche e le differenze culturali, politiche, sociali ed economiche. Fu Peter Singer, filosofo australiano oggi professore a Princeton, a porsi per primo il problema quando negli anni Settanta inizia a maturare una sensibilità nuova ed eventi drammatici quali, per esempio, le carestie che colpirono il Bangladesh nel 1971 e di nuovo nel 1974 che uccisero più di un milione di persone, non vengono più considerati solo come problemi interni ad un paese, ma come fenomeni che chiamano in causa l’intera comunità internazionale. Sono stati in molti da allora a chiedersi cosa avesse da dire la teoria della giustizia rawlsiana su questi temi. Charles Beitz, Brian Barry, Henry Shue e l’allievo di Rawls, Thomas Pogge hanno molto contribuito a sviluppare alcuni accenni che si trovano in Una Teoria della Giustizia trasponendoli su un piano globale portando l’egualitarismo liberale rawlsiano nell’arena delle relazioni tra stati. Con Il Diritto dei Popoli lo stesso Rawls, finalmente, dice la sua al riguardo, in prima persona.
Una sfida colossale
La struttura della sua argomentazione è idealmente simile a quella contrattualista che ritroviamo nella Teoria, dove però ora, nella posizione originaria, non troviamo più i rappresentati dei cittadini, ma quelli dei singoli popoli che si incontrano alla ricerca di un accordo sui principi da porre a fondamento delle loro relazioni. Le differenze tra i popoli però sono forse ancora più accentuate di quelle tra i singoli ed è per questo che rappresenta una sfida colossale estendere a livello internazionale i principi liberali di convivenza, tolleranza e giustizia. Il ragionamento prende avvio con la descrizione della “società dei popoli”, di quei popoli, cioè, disposti a darsi e a rispettare principi di diritto dopo averli negoziati e volontariamente sottoscritti. In questo senso possono individuarsi cinque tipologie differenti: i popoli liberali, democratici e rispettosi dei diritti umani e dei diritti degli altri popoli; poi i popoli “decenti” (decent) che prevedono forme di partecipazione e consultazione popolari ma che per altri versi non possono definirsi pienamente liberali anche se rispettano i diritti umani e non sono aggressivi verso altri popoli. Ci sono poi le società caratterizzate da un regime di assolutismo benevolente (benevolent absolutisms).
Queste sono come le società “decenti” ma con una ridotta partecipazione democratica alle decisioni politiche. Abbiamo poi i popoli “svantaggiati” (burdened societies). Popoli che faticano a strutturarsi in maniera democratica e liberale a causa delle gravi condizioni di sottosviluppo economico. Troviamo in ultimo i popoli “fuorilegge” (outlaw) quelli, cioè, che non rispettano i diritti umani sul piano interno e in più sono aggressivi nei confronti degli altri popoli. Tra tutti questi sono i popoli liberali e quelli decenti (definiti anche “popoli ben ordinati”) ad essere chiamati a formare la “società dei popoli”, a generare il “diritto dei popoli” e a vivere secondo le sue regole. Questi “popoli ben ordinati”, come li definisce Rawls, hanno inoltre il dovere di assistenza nei confronti delle società svantaggiate affinché possano a loro volta sviluppare istituzioni liberal-democratiche o almeno decenti. Hanno, infine, il diritto legittimamo di difendersi con mezzi proporzionati da eventuali aggressioni degli stati fuorilegge.
Otto principi
Rawls analizza i rapporti tra i membri della società dei popoli in quella che chiama la “teoria ideale” mentre i rapporti tra questi e gli altri stati - assolutisti, svantaggiati e fuorilegge – sono oggetto della parte “non ideale” della teoria. Si possono identificare quindi tre diversi ambiti di applicazione dei principi di giustizia: quello relativo alla struttura di base nazionale, quello dei rapporti tra società ben ordinate e quello internazionale generale, in cui tutti i popoli, indipendentemente dalla loro connotazione, devono mantenere rapporti reciproci. I popoli liberali e decenti negoziano nella posizione originaria in condizioni di libertà, uguaglianza e reciprocità volendo rimanere indipendenti nel tempo e promuovendo il rispetto di sé. In queste condizioni, come dimostra Rawls, emergerebbero dal processo di negoziazione otto principi di giustizia internazionale: la libertà e l’indipendenza di popoli, il rispetto dei trattati, l’eguaglianza tra i popoli, il dovere di non intervento rispetto agli affari interni degli altri popoli, il diritto di autodifesa, il rispetto dei diritti umani, le restrizioni nel modo in cui è condotta la guerra e infine il dovere di assistenza verso quei popoli che, a causa di condizioni sfavorevoli, non riescono a far parte della società dei popoli. Questa lista non è da intendersi come esaustiva; indica, piuttosto, una specie di “Costituzione morale internazionale” come la definisce Sebastiano Maffettone (Introduzione a Rawls, Laterza, 2010).
Stati liberali e stati “decenti”
Anche ne Il Diritto dei Popoli, come nella sua opera precedente, Liberalismo Politico, l’obiettivo principale del pensiero di Rawls è quello di indentificare le condizioni necessarie per l’ottenimento della stabilità istituzionale nonostante il pluralismo delle idee e la diversità culturale legata alla storia dei popoli. E così come nella sua opera precedente, anche ora, Rawls non si accontenta di un modus vivendi fatto di compromessi o di un temporaneo e provvisorio equilibrio dei poteri. Egli va alla ricerca, piuttosto, di una stabilità fondata su buone ragioni, su un consenso condiviso e cementato dal rispetto reciproco di valori fondanti. Come afferma ancora Maffettone, questa “pace liberal-democratica appare intrinsecamente diversa da quella realista, e in genere da una pace senza attributi. Sotto determinati vincoli, la pace di cui gode una società liberal-democratica è infatti caratterizzata da un’attitudine discorsiva e dall’accettazione del pluralismo, che favoriscono modi non bellicosi di risoluzione del conflitto”. Uno degli aspetti più originali dell’idea rawlsiana di società dei popoli è quella dell’inclusione oltre che degli stati liberali anche di quelli “decenti”. Società non propriamente democratiche ma che si impegnano a rinunciare all’aggressività nei confronti degli altri stati e a rispettare i diritti umani. Questa definizione di “decenza” sul piano internazionale è molto simile a quella di “ragionevolezza” del pluralismo sul piano domestico, concetto che abbiamo discusso nel Mind the Economy della settimana scorsa.
I popoli decenti devono accettare qualche forma di partecipazione democratica e devono rispettare un insieme minimale di diritti umani che Rawls identifica con il diritto alla vita, il diritto alla libertà, alla libertà di coscienza, di religione e di pensiero, il diritto alla proprietà e, infine, il diritto a quell’eguaglianza formale. Una lista di diritti minimale che, come dicevamo, devono essere rispettati affinché possano essere ammessi all’interno della società dei popoli anche coloro che si stanno orientando verso un regime liberale pur non avendolo ancora implementato in maniera compiuta.
Utopia realistica
Ci sono due ulteriori elementi centrali nella costruzione rawlsiana che sono fondamentali per l’equilibrio di ogni visione globale della giustizia: il tema della guerra e quello delle disuguaglianze economiche e del dovere di assistenza verso chi si trova in condizioni di difficoltà. Rawls affronta entrambe le questioni con la consueta precisione raggiungendo conclusioni che non sono sfuggite a critiche serrate da parte di molti. Ce ne occuperemo nelle prossime settimane. Un’ultima precisazione prima di concludere. È importante sottolineare fin da subito che la visione della giustizia globale di Rawls non è una visione cosmopolita. Scrive al riguardo il filosofo irlandese Philip Pettit: “Consideriamo una situazione in cui due paesi sono entrambi giusti (…) Supponiamo che in uno dei due paesi le persone – e in particolare quelle più svantaggiate – siano più ricche rispetto alle loro controparti dell’altro paese. E supponiamo che una certa redistribuzione migliorerebbe la posizione dei più svantaggiati nella società più povera. Questa ridistribuzione sarebbe necessaria per una questione di giustizia? Secondo il cosmopolitismo sì (…) secondo Rawls, invece, no. (“Rawls’s Peoples” in Martin, R., Reidy, D., (eds.) Rawls’s Law of Peoples: a Realistic Utopia? Blackwell, 2006). Questo perché, come scrive lo stesso Rawls “Lo scopo politico finale della società è quello di diventare pienamente giusta e stabile per le giuste ragioni. Una volta raggiunto tale obiettivo, il Diritto dei Popoli non prescrive ulteriori obiettivi come, ad esempio, aumentare il tenore di vita oltre quanto necessario per sostenere tali istituzioni”.
Un’utopia realistica, quella immaginata da Rawls che oggi, proprio oggi, in un tempo nel quale sempre più sembra che l’aggressione stia prendendo il posto del negoziato come mezzo di relazione tra i popoli, avrebbe tanto da suggerirci, tanto da insegnarci rispetto alle condizioni di una convivenza pacifica e di relazioni internazionali fruttuose e generative.