I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 10/03/2024
Che cos’è la giustizia? «Non v’è altra domanda – scrive il giurista e filosofo Hans Kelsen – la quale sia stata discussa in modo tanto appassionato; non v’è altra domanda per la quale si siano versati tanto prezioso sangue e tante amare lacrime; non v’è altra domanda alla quale sia stata dedicata una riflessione tanto intensa (…) eppure, questa domanda resta ancora oggi, come in passato priva di risposta. Sembra essere una di quelle domande – continua Kelsen – per le quali v’è la rassegnata consapevolezza che l’uomo non potrà mai trovare una risposta definitiva, ma potrà soltanto cercare di formulare meglio la domanda» (Che cos’è la giustizia? Lezioni americane, 2015, Quodlibet).
John Rawls è tra quelli, non moltissimi, che nel panorama contemporaneo hanno provato a «formulare meglio la domanda». Per Rawls la giustizia riguarda innanzitutto la «struttura di base» e non direttamente i singoli.
È un qualcosa che ha a che fare con la natura delle nostre istituzioni fondamentali, le norme, il mercato, la proprietà, la famiglia.La giustizia, in questo senso, definisce il modo in cui attraverso queste istituzioni le comunità distribuiscono ai loro membri i benefici che si generano dalla vita associata, ciò che riusciamo ad ottenere vivendo insieme e che non saremmo stati in grado di ottenere da soli.
I principi di giustizia vengono individuati, nello schema teorico di Rawls, attraverso un processo di negoziazione e stabiliti, resi vincolanti, grazie alla sottoscrizione di un contratto sociale.
In questo modo Rawls si inserisce a pieno titolo nella grande tradizione del contrattualismo occidentale: Hobbes, Rousseau, Locke e Kant sono tutti filosofi che, anche se in modo differente, hanno fatto uso della metafora o del dispositivo del contratto sociale. Rawls è un neo-contrattualista e quel “neo” non sta solo ad indicare una dimensione di novità cronologica ma soprattutto una novità sostanziale nel modo di considerare il contratto stesso all’interno del suo sistema di pensiero.
Tradizionalmente il dispositivo del contratto viene utilizzato per dar conto della nascita di un’autorità politica legittima. Prima di essa si suppone che le persone vivessero in una condizione disordinata e bellicosa, “lo stato di natura” come lo definisce Hobbes, una condizione dove la vita è “solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”. Attraverso la sottoscrizione di un contratto con il quale ci si accorda su alcune regole comuni il cui rispetto viene reso credibile dall’azione dell’autorità politica – il Leviatano di Hobbes ha in una mano il bastone pastorale e nell’altra la spada – si esce da questo “stato di natura” e si diventa comunità politica.
La prima differenza tra Rawls e tale tradizione è che mentre per Hobbes il passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto costituisce una rappresentazione della storia che in modi più o meno simili a quelli che egli descrive si è effettivamente svolta, per Rawls, invece, il contratto è un esperimento mentale attraverso il quale immaginare come sarebbe una società senza la presenza di un accordo sulle regole di base. Dal confronto tra questa società e quella “ben ordinata” che può nascere con la sottoscrizione del contratto, nasce la spinta a darsi delle regole di convivenza comune e delle istituzioni affidabili.
Il contratto viene “siglato”, per così dire, quando ogni cittadino riconosce il valore di tali regole e si impegna, in maniera vincolante, a rispettarle. Quando, in altri termini, ogni persona vede riconosciute nei principi sanciti dal contratto le sue intuizioni morali più profonde. Questa impostazione pur facendo riferimento alla metafora contrattuale si discosta dalla tradizione hobbesiana non solo perché quest’ultimo riteneva il contratto un fatto storico, ma anche perché per Hobbes, questo andava inteso come un compromesso possibile capace di conciliare gli interessi di soggetti egoisti – homo omini lupus – spinti esclusivamente dal desiderio acquisitivo e di sopravvivenza, il conatus sese conservandi.
È chiaro che nessun tipo di connotazione morale si può ascrivere a un contratto siffatto. In Rawls, al contrario, l’aspetto contrattualistico si inserisce nel quadro di una teoria del “consenso ipotetico”, come spiega Sebastiano Maffettone (Introduzione a Rawls, Laterza, 2010), e non del “consenso attuale”. Ciò vuol dire che il filosofo americano parte da una condizione simile allo “stato di natura” che egli definisce “posizione originaria” per individuare quei principi, i “termini fondamentali della loro associazione”, sui quali, partendo da una iniziale uguaglianza, soggetti liberi, razionali, indipendenti, mutuamente disinteressati riuscirebbero a raggiungere un accordo. Si tratta di una ricostruzione razionale e ipotetica.
In che modo, allora la “posizione originaria” si discosta dallo “stato di natura”? Il dato più importante è certamente quello relativa alla condizione di “equità” che viene raggiunta attraverso l’espediente del cosiddetto “velo di ignoranza”; tema sul quale torneremo.
La posizione originaria introduce nel discorso rawlsiano alcuni elementi fondamentali. Il primo è dato dalla “lista delle alternative”, vale a dire dall’insieme delle idee filosofiche che si possono prendere in considerazione per fondare la propria convivenza.
Quali modalità di vita conosciamo e quali principi sono stati sviluppati nella storia del pensiero che potrebbero essere utili oggi a regolare una comunità sociale? Tra questi Rawls include l’utilitarismo, il perfezionismo, l’intuizionismo, l’egoismo razionale e la sua teoria della giustizia come equità.
Ogni alternativa viene presa in considerazione ma la riflessione, come abbiamo visto la settimana scorsa, si concentra in particolare sul confronto con l’utilitarismo. Il secondo elemento che caratterizza la “posizione originaria” è dato da ciò che David Hume definisce le “condizioni di giustizia”.
La prima presuppone la scarsità dei beni, vale a dire un eccesso di domanda rispetto all’offerta. È solo perché si pone questa condizione che nasce un problema di giustizia nella distribuzione dei beni scarsi.
La seconda condizione fa riferimento alle motivazioni individuali che sono definite da ciò che Rawls chiama “egoismo moderato”. Una struttura di motivazioni che implica il “reciproco disinteresse” di ogni individuo rispetto alle sorti di ogni altro. L’identificazione dei principi di giustizia, date queste condizioni, equivale, secondo Rawls, a risolvere un problema di scelta razionale, a trovare, cioè, una soluzione su cui non si può non essere d’accordo.
La terza caratteristica essenziale della “posizione originaria” è data dai vincoli che vengono imposti ai principi di giustizia. Tali vincoli prevedono tra gli altri il fatto che i principi devono essere “universali”, cioè, validi per tutti, “pubblici”, “generali”, in grado di generare un ordinamento, vale a dire una scala di priorità circa gli interessi eventualmente in conflitto e, infine, i principi devono essere “definitivi”, costituire l’elemento finale e dirimente in materia di controversie morali.
Il quarto ed ultimo elemento che caratterizza la “posizione originaria”, forse il più originale, è il fatto che le parti sono chiamate a negoziare il contratto stando dietro il cosiddetto “velo di ignoranza”.
L’idea di Rawls è quella di mettere in atto un meccanismo di individuazione dei principi di giustizia che faccia riferimento alla “giustizia procedurale”; ciò significa che saranno giusti quei principi che verranno individuati attraverso un processo che ha seguito delle regole che riteniamo giuste.
Una delle caratteristiche più importanti e delicate di tale processo di negoziazione è data dall’insieme delle informazioni che ogni individuo possiede. Tali informazioni, infatti, possono influenzare le valutazioni e le scelte individuali e perfino generare un blocco nel processo determinando una impasse insuperabile.
“Chi, ad esempio, fosse a conoscenza del fatto di essere ricco – scrive Rawls - potrebbe credere razionale un principio secondo cui alcune imposte per scopi assistenziali dovrebbero essere considerate ingiuste; se egli fosse invece a conoscenza della propria povertà, molto probabilmente proporrebbe il principio opposto. Per descrivere le restrizioni volute, si immagina una situazione in cui ciascuno viene privato di questo tipo di informazioni. Si esclude la conoscenza di quei fattori contingenti che pongono in disaccordo gli individui e che li lasciano in balia dei propri pregiudizi. In questo modo si arriva a concepire naturalmente un velo di ignoranza”.
Attraverso questo espediente, Rawls, introduce un vincolo stringente al tipo di informazioni che i decisori possono utilizzare nel processo di negoziazione.
Operare dietro il “velo di ignoranza” significa non considerare quale posizione si occuperà nella società civile che emergerà dopo la stipula del contratto. La nostra identità personale, la concezione del bene, la condizione socio-economica, la propensione al rischio, sono tutti elementi che non dovranno essere considerati se vogliamo fare in modo che il processo di individuazione dei principi di giustizia sia equo e in grado di garantire l’individuazione di principi giusti, proprio in quanto emersi da una procedura equa.
Dietro il velo di ignoranza gli individui “non sanno in che modo le alternative influiranno sul loro caso particolare, e sono quindi obbligate a valutare i principi soltanto in base a considerazioni generali”.
In questo modo si cerca di eliminare “gli effetti delle contingenze particolari che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio vantaggio le circostanze naturali e sociali”. Quando si va a contrattare nella “posizione originaria” si sa tutto tranne ciò che potrebbe distorcere a nostro vantaggio le regole del gioco, i principi di giustizia che andranno a fondare le istituzioni e la struttura di base della società.
La mancanza di informazioni rispetto alla nostra identità diventa quindi il presupposto necessario ad un processo di contrattazione equo ed imparziale. Alla luce di quanto detto si capisce come il “velo di ignoranza” non sia altro che una versione sofisticata della buona norma secondo cui le regole del gioco istituzionale non possono essere cambiate dalla sola maggioranza. Le riforme istituzionali, le leggi elettorali, le riforme di rango costituzionale devono, cioè, essere condivise da tutti i giocatori. E questo per evitare di generare distorsioni durature sulla sola base di differenze contingenti.
Una regola di condotta sacrosanta per una società che vuole considerarsi giusta. Una regola tanto importante quanto, purtroppo, disattesa.
Credits foto: © Diego Sarà