I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 17/03/2024
La giustizia è per John Rawls questione che attiene alle istituzioni fondamentali che regolano la vita di una comunità, alla sua “struttura di base” come egli la definisce, istituzioni giuste se capaci di favorire lo sviluppo di una società “ben ordinata”. Tale questione riguarda, dunque, i criteri, le regole, le istituzioni, appunto, che i cittadini si danno per procedere alla ripartizione dei benefici derivanti dalla vita associata. Nell’impostazione contrattualista rawlsiana, a tali regole si perviene attraverso un processo di negoziazione portato avanti da individui liberi e uguali. Soggetti liberi in quanto dotati di un naturale senso di giustizia e capaci di concepire il bene in virtù della loro razionalità e soggetti uguali, perché il possesso di queste facoltà li rende ugualmente capaci di contribuire al benessere della società.
Tale processo di negoziazione che ha come punto di arrivo la sottoscrizione di quel contratto sociale che specifica i principi di giustizia, ha come punto di avvio ciò che Rawls definisce la “posizione originaria”, lo “status quo iniziale che garantisce l’equità degli accordi fondamentali in esso raggiunti”. In tale situazione i soggetti hanno piena informazione circa lo stato del mondo ma con una notevole eccezione. Affinché venga garantita l’imparzialità è necessario, infatti, che essi operino dietro un “velo di ignoranza”, ne abbiamo discusso la settimana scorsa; un dispositivo, cioè, che “filtra” le informazioni a disposizione dei soggetti in modo da evitare che questi propendano per alcuni principi o per altri solo sulla base del fatto che questi tutelano maggiormente i loro personali interessi. Ogni soggetto, quindi, dietro il velo di ignoranza, conoscerà tutto circa la sua identità e quella che avrà dopo la sottoscrizione del contratto, tranne che aspetti come la razza, il genere, gli orientamenti sessuali, il reddito, la propria concezione del bene o il credo religioso. Tutti quegli elementi, insomma, che potrebbero introdurre distorsioni nelle valutazioni e partigianeria nelle decisioni.
Il “velo di ignoranza”, dunque, è pensato per rendere le valutazioni e le decisioni non solo razionali, ma anche imparziali, per evitare, quindi, che differenze di questo tipo possano generare situazioni nelle quali coloro che occupano un posto privilegiato nel sistema sociale lo possano sfruttare a proprio vantaggio. Un tema importante nell’ambito del processo di individuazione dei principi di giustizia a partire dalla “posizione originaria” riguarda il fatto che Rawls assume che i soggetti che lì si trovano a negoziare sono soggetti razionali.
Ma cosa vuol dire “razionalità” per Rawls?
Questo requisito si rifà direttamente alla nozione di razionalità economica che si fonda sull’idea di preferenze “coerenti”. Nella sua versione minimale la “coerenza” equivale alla proprietà di “transitività” degli elementi di un insieme. Si richiede, cioè, che le preferenze individuali soddisfino un requisito in virtù del quale posto che indichiamo con x, y e z degli elementi, siano essi beni, allocazioni di beni, distribuzioni di diritti, opportunità o qualunque altro elemento sul quale un soggetto A può esprimere delle preferenze e che può ordinare in termini di preferibilità, la transitività impone che se A preferisce x a y e y a z non è possibile che preferisca contemporaneamente z a x o che sia indifferente tra i due elementi. Sulla base di queste preferenze coerenti, dice Ralws, il soggetto “segue poi il piano che soddisfa la maggiore quantità dei suoi desideri, e che ha le maggiori possibilità di essere portato a termine con successo”.
A questa definizione standard di razionalità, per descrivere i partecipanti alla negoziazione nella “posizione originaria”, si aggiunge un ulteriore requisito, quello di “assenza di invidia”. Ciò significa, ci spiega Rawls, che un soggetto immune da invidia “Non è disposto ad accettare una perdita per sé stesso solo perché anche altri subiscono le stesse perdite. Non è danneggiato dalla consapevolezza o dalla sensazione che altri possiedano un indice maggiore di beni primari sociali”. Un soggetto razionale non è disposto, detto in altri termini, a vedere peggiorare la propria situazione anche se questa dovesse implicare un peggioramento ancora maggiore della situazione di un soggetto che originariamente stava meglio di lui e quindi una riduzione della disuguaglianza tra i due. Se il soggetto A possiede 10 e tutti gli altri hanno 20, non è socialmente desiderabile che A rinunci a 5 per far perdere 10 a tutti gli altri.
Sarebbe una perdita netta sociale, un peggioramento Paretiano, direbbero gli economisti. Non per niente Kant definisce l’invidia un “vizio di misantropia” e Rawls assume che i suoi agenti razionali ne siano immuni. Almeno fintantoché il nostro agente “non comincia a credere che le ineguaglianze esistenti sono basate sull’ingiustizia, o sono il risultato di un’azione incontrollata del caso, priva di qualunque scopo sociale compensativo”. Quando, cioè, le diseguaglianze vengono percepite come il frutto voluto di un’organizzazione sociale consolidata.
Il “reciproco disinteresse”
Per completare la descrizione della “posizione originaria” e dei suoi protagonisti occorre tenere in considerazione un ulteriore elemento correlato alla assenza di invidia. Ciò che Rawls indica come “reciproco disinteresse”. Ogni agente persegue i propri interessi sulla base di ordinamenti coerenti di preferenze, senza provare invidia ma anche senza alcun riguardo per gli effetti che le proprie scelte produrranno sul benessere degli altri agenti o sulle possibilità che questi riescano a raggiungere i loro scopi. Naturalmente Rawls sa bene che questi requisiti definiscono un modello di agente sociale che è una rappresentazione alla meglio “stilizzata” delle persone reali, ma sostiene che se un accordo sui principi di giustizia è valido per soggetti di tal fatta, a maggior ragione dovrebbe essere valido per soggetti che oltre ad un innato senso di giustizia tengono, in un modo o nell’altro, anche a ciò che capita a chi li circonda, agli altri membri della comunità.
“Posizione originaria”, “velo di ignoranza”, agenti razionali, mutuamente disinteressati e non invidiosi; questo è il set che Rawls prepara per garantire libertà e imparzialità; questi sono gli attori di cui egli lo popola. La rappresentazione che si svolgerà è data da quel processo di negoziazione che da questo momento può avere inizio.
Quale il risultato?
La determinazione dei due principi di giustizia che, secondo Rawls, le parti deciderebbero di porre a fondamento delle loro istituzioni, della struttura di base di una società ben ordinata: si tratta del “principio di libertà” e del “principio di differenza”. Discuteremo più avanti e nel dettaglio i due principi. Concentriamoci per ora sul processo che porta alla loro individuazione. La qualità del processo, infatti, è necessaria per determinare la legittimità dei principi che vengono individuati e la plausibilità di un accordo sulla loro adozione. A tal proposito si possono scegliere strade differenti. “Si possono sviluppare le conseguenze dei principi per ciò che riguarda le istituzioni – per esempio, spiega Rawls - e notare le loro implicazioni per politiche sociali fondamentali”. Oppure si può provare una strada alternativa e “tentare di trovare argomenti decisivi a loro favore dal punto di vista della posizione originaria [considerando] i due principi come la soluzione di maximin al problema della giustizia sociale”.
Quest’ultima è una mossa interessante che consente a Rawls di utilizzare un ben noto principio della teoria delle decisioni, quello del maximin, appunto, applicandolo ad un contesto nuovo, che è quello che interessa a lui, e cioè, al tema della giustizia sociale. Il principio del maximin funziona in questo modo: immaginiamo che ci si ponga il problema di scegliere tra differenti azioni. Ogni azione produrrà un esito differente in relazione alle circostanze, agli “stati del mondo”, nei quali queste verranno compiute. Se decido di uscire con l’ombrello questa scelta avrà conseguenze differenti in base al fatto che pioverà oppure no: ombrello-utile in un caso, ombrello-peso-inutile, nell’altro.
La regola del maximin
Il principio del maximin prevede che per decidere cosa è meglio fare occorre ordinare le varie azioni in relazione al peggiore degli esiti possibili e scegliere tra le azioni a disposizione quella che garantisce l’esito migliore (max) tra i peggiori (min). Non entriamo nei particolari del ragionamento e limitiamoci all’immagine che usa Rawls per sostanziare l’analogia tra i principi di giustizia e la regola decisionale del maximin. “I due principi – scrive il filosofo - sono quelli che un individuo sceglierebbe per un modello di società in cui è il suo avversario che gli assegna il posto. La regola del maximin ci dice di classificare le alternative secondo il loro peggior risultato possibile: dobbiamo adottare l’alternativa il cui peggior risultato è superiore ai peggiori risultati delle altre”. Immaginiamo, dunque, tre possibili principi di giustizia: P1, P2 e P3. Questi principi possono operare in differenti “stati del mondo”, per semplicità limitiamone il numero a quattro e chiamiamoli S1, S2, S3 e S4. Ogni principio nei quattro “stati del mondo” può determinare quattro esiti possibili, che per semplicità misuriamo attraverso degli indici numerici: 1,0,3,0, nel caso di P1, 2,1,3,1, per quanto riguarda P2 e, infine, 2, -1, 3, 0. Dati questi scenari quale principio decisionale sarebbe razionale scegliere? Il maximin, in maniera prudenziale, suggerisce di individuare gli esiti peggiori tra tutti quelli possibili - in questo caso 0 per P1, 1 per P2 e -1 per P3 – e di selezionare il principio che garantisce il migliore tra questi esiti peggiori e cioè, in questo caso, il principio P2 che al peggio, garantisce l’esito 1.
Se dovessimo decidere senza poter conoscere la posizione, in termini di reddito, genere, opportunità, etc., che andremo ad occupare in una ipotetica costituenda società, quali principi di giustizia ci piacerebbe che regolassero tale società? Questo è in sintesi il problema che si pone agli agenti nella “posizione originaria” e dietro al “velo di ignoranza”. E la soluzione intuitiva cui fa riferimento Rawls è quella di scegliere i principi che ci garantirebbero la posizione migliore tra le peggiori possibili, tra quelle, cioè, in cui vorrebbe vederci finire un nostro ipotetico nemico.
Critica alla prospettiva utilitarista
Tale ragionamento sembra astratto e molto lontano dalle nostre intuizioni sulla giustizia, ma a pensarci bene non è così. Occorre non dimenticare che la teoria di Rawls viene sviluppata come critica alla prospettiva utilitarista allora dominate. Per gli utilitaristi la regola decisionale migliore, se vogliamo continuare ad utilizzare la terminologia della teoria delle decisioni, è quella del maxi-mean, quella cioè che farebbe prevalere quell’ordine sociale che massimizza (max) la media (mean) delle utilità individuali. Il maxi-mean è solo un altro modo per indicare il principio utilitaristico della “massima felicità per il massimo numero”. Attraverso l’analogia dei suoi principi di giustizia con la regola del maximin Rawls ci sta dicendo che l’obiettivo di una società ben ordinata non può essere quello di massimizzare la media del benessere dei cittadini, perché in questo caso potremmo voler sacrificare la libertà di qualcuno che sta peggio per far star ancora meglio coloro che già stanno bene. Questo sarebbe perfettamente coerente con un approccio utilitarista ma decisamente in contrasto con il nostro più profondo senso di giustizia. La proposta di Rawls, legata ai suoi due principi di giustizia, invece è quella che ci dovrebbe portare a focalizzarci sugli interessi di chi sta peggio e spingerci a migliorare (max) il loro benessere (min). In questo modo operano infatti i due principi “di libertà” e “di differenza” che vanno a comporre la visione della giustizia come equità di Rawls.
Credits foto: © Diego Sarà