I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 26/11/2023
La critica fondamentale che Hegel muove al pensiero di Kant ha come obiettivo il suo formalismo astratto e intellettualistico. La filosofia hegeliana, per contro, si fonda su un pensiero “incarnato”, vitale, organico. In questo quadro si capisce perché, per esempio, il valore di diritto per Hegel non sta tanto nella sua astratta enunciazione o nella sua presunta tutela, quanto piuttosto nella concreta possibilità di esercitarlo. Un diritto che non si può utilizzare è un diritto di nessun valore. Il diritto di proprietà, solo per fare un esempio, senza la possibilità di acquisire la proprietà su un certo bene non può essere considerato come un reale diritto. Questi si manifestano, infatti, solo quando possono essere utilizzati. Ma se la valenza concreta di un diritto, quindi, continua Hegel, deriva dal suo utilizzo, affinché questo risulti legittimo è necessario che esso venga riconosciuto da parte dei soggetti sia privati che pubblici che costituiscono il contesto nel quale tale diritto viene effettivamente utilizzato. L’espressione di un diritto, dunque, come bene sottolinea Dean Moyar “è uno standard che coinvolge le relazioni con altri agenti nella misura in cui le azioni degli altri possono sostenere o distorcere il contesto espressivo” (Hegel’s Value. Justice as the Living Good, Oxford University Press, 2021).
Alla radice della necessità di “riconoscimento”
Ma il rapporto con gli altri, per Hegel, è fondamentale non solamente per quanto riguarda la possibilità di esprimere concretamente i propri diritti, ma anche per il soddisfacimento del bisogno, cui il filosofo attribuisce un ruolo centrale nella vita individuale e sociale, di “riconoscimento”. Alla radice della necessità di “riconoscimento” c’è il profondo legame che esiste tra l’esperienza individuale, la costruzione del significato del sé e la relazione con gli altri, la dipendenza e la vulnerabilità alla loro azione, al loro sguardo.
Se il posto che questa idea di riconoscimento occupa nella filosofia hegeliana è centrale, il concetto in sé non è certo nuovo nel panorama della filosofia europea della prima modernità. Axel Honneth che forse più di tutti, tra i contemporanei, ha esplorato e sviluppato le implicazioni di questa idea individua nel suo Riconoscimento. Storia di un’idea Europea (Feltrinelli, 2018) tre filoni principali: quello francofono inaugurato da Rousseau e che arriverà fino a Sartre, quello anglofono rappresentato principalmente da Hume e Smith e quello tedesco che va da Kant fino a Fichte e che vedrà con Hegel raggiungere la sua più alta sintesi.
Un percorso che inizia con il crollo della civiltà feudale
Il problema del riconoscimento inizia ad emergere nella riflessione europea con il crollo della società feudale con le sue rigide strutture di classe e di funzione. Se in quel mondo lo status e i ruoli venivano vissuti come fissi e stabiliti per volontà divina con il suo superamento inizia ad affacciarsi una società flessibile dove il posto dei singoli può variare e inizia a dipendere sempre più da ciò che ciascuno pensa e crede e dal valore che riconosce a ciascun altro. Se il mio ruolo e il mio status sociale dipendono sempre più da ciò che gli altri pensano di me e sono disposti a concedermi, sarà naturale, così concludono i moralisti francesi dell’epoca, cercare di apparire migliori di come si è in realtà. Nasce e si sviluppa in questo modo una vera e propria antropologia dell’insincerità, per dirla con La Rochefoucauld. Il concetto fondamentale che in tale mondo regola i rapporti sociali è quello dell’amour-propre, una forma sofisticata di superbia mista ad autocompiacimento.
La spinta constante a fingere di essere migliori di quanto non si è in realtà non solo crea una incertezza ed un sospetto generalizzato nell’ambito delle relazioni interpersonali, ma produce un effetto straniante anche nei confronti del soggetto stesso. “Siamo così abituati a fingere di fronte agli altri - scrive La Rochefoucauld nella sua massima 119 - che finiamo per fingere anche di fronte a noi stessi”. “Riconoscere”, quindi, non significa in questo contesto solamente “dare”, attribuire stima e valore in base a qualità che vengono esibite; vuol dire anche e soprattutto “svelare”; riuscire cioè a comprendere quando realmente le qualità mostrate sono reali e sincere.
Il tema viene sviluppato a fondo più tardi da Jean-Jacques Rousseau che costruisce intorno all’idea di amour- propre il suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini dove il filosofo ginevrino ricostruisce la storia umana come una vicenda di degradazione che si origina dalla perdita dell’indipendenza e dalla nascita della società civile dove l’originaria purezza della condizione umana viene corrotta dall’impulso incontenibile dell’amour-propre, il bisogno competitivo che ci spinge a primeggiare sui propri simili, anche a costo di fingere doti e qualità che in realtà non si posseggono. Mentre la vita naturale è guidata dall’amour de soi, il nobile istinto di sopravvivenza, il consorzio sociale viene inquinato dall’innaturale amour-propre, che porta diseguaglianza, sopraffazione e degrado. Solo mutate condizioni sociali, secondo Rousseau, una comunità umana rifondata su basi egualitarie, possono trasformare l’amour-propre da forza disgregante in energia vitale positiva capace di spingerci verso la ricerca di un sincero e reciproco rispetto.
Honneth prosegue, dopo l’analisi dell’ambiente francofono, con la discussione della situazione anglofona, scozzese per la precisione, e dell’importanza che il concetto di riconoscimento avrà in David Hume e Adam Smith. Se la società francese avesse vissuto il trauma del crollo del sistema feudale, quella inglese avrebbe attraversato una transizione esplosiva verso la società mercantile. I tipi umani che la popolavano erano rappresentati da scrittori come Bernard de Mandeville ora come preda delle passioni egoistiche o, al contrario, dagli autori “sentimentalisti” come Shaftesbury e Hutcheson, più ottimisticamente come naturalmente orientati al bene e al bello. La strada che sceglie di intraprendere Hume è radicalmente differente.
La capacità di “risuonare” con gli altri
Ciò che caratterizza la nostra psicologia morale non è tanto la prevalenza dell’egoismo o dell’altruismo quanto piuttosto la peculiare capacità di “risuonare” con gli altri. Hume fa l’esempio di quelle corde tese e vicine che quando una viene pizzicata risuonano anche a distanza con la prima. “Quando vedo gli effetti di una passione nella voce e nei gesti di una persona – scrive Hume nel Trattato sulla Natura Umana - la mia mente passa subito da questi effetti alle loro cause, e si forma della passione un’idea così viva da mutarsi subito nella passione stessa”. Tale processo di risonanza si fonda sulla sympathy, così Hume definisce la “com-passione”, la naturale capacità di com-prendere e con-dividere i pensieri, gli stati d’animo e le emozioni altrui. È la “natura riverberante” della sympathy, in particolare, che rende possibile il “riconoscimento” perché attraverso di essa noi riconosciamo le qualità degli altri sulla base degli effetti che immaginiamo esse abbiano su di loro, per via di una forma automatica di contagio emotivo che agisce su di noi.
Questa stessa dinamica spiegherebbe perché siamo spinti, secondo Hume, a guadagnarci la nostra auto-approvazione almeno quanto desideriamo l’approvazione degli altri. La sympathy ci porta a guardare a noi stessi così come immaginiamo che gli altri ci guarderebbero e ad essere, quindi, soddisfatti per le nostre virtù e infelici per i nostri stessi vizi, anche quando l’esercizio di questi ultimi può procurarci benefici materiali. La sympathy, scrive Hume, “ci trasporta fino al punto da essere dispiaciuti delle qualità che ci agevolano, per il semplice fatto che queste dispiacciono agli altri, e ci rendono odiosi ai loro occhi”.
Hume e Russeau agli opposti. E Smith va oltre
Appare evidente, dunque, quanto l’idea di riconoscimento sviluppata da Hume differisca da quella di Rousseau. Mentre quest’ultima degrada l’uomo rendendolo insincero, la prima lo eleva ad un livello superiore di moralità. Nella Teoria dei Sentimenti Morali, Adam Smith spinge il discorso ancora oltre. “Per quanto [l’uomo] possa esser supposto egoista – esordisce nel primo capitolo - vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l’altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla [perché] attraverso l’immaginazione poniamo noi stessi nella sua situazione (…) e diventiamo in qualche misura la stessa persona e così ci formiamo un’idea delle sue sensazioni e anche sentiamo, anche se in misura minore, qualcosa di non dissimile da quello che sente lui”. Ma la capacità di simpatizzare non ci consente solo di metterci nei panni degli altri, ci spiega Smith; essa favorisce anche la nascita di un senso condiviso di appropriatezza delle azioni, e in ultimo fa sì che il soggetto diventi capace di autoriflessione. La consapevolezza di sé (individuale) è il prodotto del “comune sentire”, dei nostri fellow-feelings come li definisce Smith. Impariamo a valutare noi stessi, cioè, imparando ad immaginare come gli altri ci valuterebbero. “Non riusciamo mai ad esaminare i nostri sentimenti e motivazioni, non riusciamo mai a formulare nessun giudizio su di essi, se non ci spostiamo dalla nostra posizione naturale e ci sforziamo di osservarli da una certa distanza. Ma non possiamo fare questo se non sforzandoci di osservarli con gli occhi degli altri, o così come si suppone che gli altri li osserverebbero”. Il senso profondo del riconoscimento per Smith e per Hume è dunque questo: una via comune e intersoggettiva alla azione sociale e morale.
Mentre per Rousseau la vita sociale è fonte di insincerità e disuguaglianza, per Hume e Smith essa diventa civilizzante spingendoci, attraverso l’“autodominio”, all’esercizio della prudenza, della giustizia e della benevolenza, le virtù per eccellenza della società mercantile. Mentre per Rousseau il riconoscimento è qualcosa che si elargisce, per gli scozzesi, invece, è qualcosa che noi riceviamo direttamente o indirettamente dagli altri.
Saranno i filosofi tedeschi, che rincontreremo nelle prossime settimane, a partire da Kant, ma soprattutto con Fichte e poi Hegel coloro che porteranno a sintesi la riflessione sull’idea come via per la maturazione della coscienza di sé che solo può avvenire attraverso una relazione di “riconoscimento” con l’altro.