I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 21/08/2022
La produzione volontaria di un bene pubblico è l’esempio preferito dagli economisti per spiegare le dinamiche cooperative nei gruppi e nelle comunità: tutti vorrebbero quantità maggiori di quel bene, ma, contemporaneamente, tutti vorrebbero che fossero gli altri a impegnarsi nella sua produzione, per poterne godere i benefici senza sopportarne i costi. È il noto problema del free-riding, di quegli evasori fiscali, per esempio, che mandano i figli alla scuola pubblica, che godono dei servizi sanitari, delle strade, dei parchi, e di mille altri servizi prodotti con le tasse pagate da altri.
Perché non pagare le tasse è un reato
A causa del rischio del free-riding, in genere, i beni pubblici non vengono prodotti privatamente, ma dal settore pubblico e non pagare le tasse rappresenta un reato. Il rischio di essere sfruttati dagli opportunisti, infatti, spinge anche chi sarebbe inizialmente disposto a cooperare per contribuire alla produzione del bene a non farlo, determinando in questo modo un «fallimento del mercato». La stessa dinamica si osserva in laboratorio quando i soggetti sono chiamati a simulare un processo analogo in un cosiddetto public good game: si inizia cooperando ma poi, round dopo round, la contribuzione media va a diminuire fino a convergere verso lo zero. Questa è la soluzione di equilibrio. Abbiamo visto le settimane scorse, però, che questa dinamica può essere interrotta nel momento in cui ai partecipanti viene data la possibilità di utilizzare un meccanismo di sanzionamento decentralizzato. In altre parole, in base a questo meccanismo, dopo aver osservato il comportamento degli altri membri del gruppo si può decidere se sanzionare in maniera costosa chi si è comportato da free rider.
Il rischio di ritorsioni
Molto si è dibattuto circa il ruolo delle sanzioni decentralizzate nella regolazione della vita in comune, nel favorire la cooperazione e il rispetto delle norme sociali. Sono stati compiuti centinaia di studi sia in laboratorio che sul campo, per testare queste ipotesi, molti dei quali hanno dato risultati decisamente incoraggianti. Se non fosse per una piccola controindicazione di cui abbiamo iniziato a parlare nel Mind the Economy della settimana scorsa: il rischio di ritorsioni. Nella maggior parte degli esperimenti incentrati sulla produzione di un bene pubblico viene confrontato un trattamento nel quale i partecipanti devono decidere quanto investire con un altro trattamento nel quale dopo aver investito e aver osservato l’investimento degli altri, si può decidere se punire chi, secondo noi, non ha fatto fino in fondo la sua parte. Si osserva, tipicamente, che la possibilità di essere puniti esercita un effetto deterrente che spinge anche i più recalcitranti a cooperare per il bene del gruppo. Nella realtà, però, le cose sono un po’ più complicate, perché di solito ad una punizione può seguire una contro-punizione.
Quando si punisce... il punitore
Nessuno è felice di essere sanzionato, soprattutto se non si riconosce legittimità a chi ci ha sanzionato. E per questo spesso chi viene punito, a sua volta, può decidere di punire il «punitore». Quando negli esperimenti si inserisce anche questo scenario vediamo che i risultati cambiano radicalmente. La paura della contro-punizione riduce la disponibilità a punire i free rider e questi saranno liberi di comportarsi da opportunisti e, così, di logorare la spinta cooperativa tra gli altri membri del gruppo. La rabbia è un’emozione potente, difficile da governare. Metterla al centro di un sistema di regolazione sociale può essere molto delicato perché la stessa emozione può anche ritorcersi contro chi la sperimenta. Alcuni studi recenti si sono concentrati proprio su questa valenza potenzialmente distruttiva della «punizione altruistica». Cosa succederebbe, infatti, se punizione e contro-punizione non fossero limitate, ma potessero susseguirsi, come spesso accade in realtà, sfociando in un circolo vizioso di vendette? Daniel Zizzo, Nikos Nikiforakis, Dirk Engelmann, Charles Noussair e Francesco Guala sono solo alcuni degli economisti comportamentali e filosofi che si sono occupati del tema e che hanno documentato nei loro esperimenti la nascita di vere e proprie «faide» tra i partecipanti.
Lo scontro tra i rapper della Golden Age
Faide sperimentali non molto differenti, nella logica da quelle alimentate da un’escalation di vendette e rabbia, onore violato e lutti ingiustificabili. Un’escalation nella quale, naturalmente, tutti perdono. C’è la storia famosa della faida che vide contrapposte le famiglie Hatfield e McCoy che, a causa della proprietà contesa di un maiale, insanguinò per decenni i confini tra West Virginia e Kentucky. Randall McCoy, alla fine della faida, aveva perso sette figli e la moglie. Per ragioni altrettanto futili è nato lo scontro tra i rapper della West Coast e quelli della East Coast. Una rivalità tra le etichette Death Row Records e la Bad Boy Records che, sul finire degli anni Novanta, partita dagli insulti in rima, ha coinvolto artisti del calibro di Snoop Dogg, Dr. Dre, Puff Daddy e Jay-Z ed è terminata con l’uccisione delle stelle del rap Tupac Amaru Shakur e Notorious B.I.G.
La «disamistade sarda»
In alcune zone della Sardegna la vendetta assumeva quasi lo status di istituto para-giuridico con una sua codificazione vera e propria. Nella «disamistade», l’inimicizia tra le famiglie, esistono delle tappe che regolano l’escalation e che vanno rispettate rigorosamente: a un danno patrimoniale si risponde con un danno patrimoniale. È solo la reiterazione di un danno patrimoniale che produce un accumulo dell’offesa che può, solo a quel punto, sfociare in una risposta di sangue e poi un’altra e poi un’altra ancora. Faide del genere sono tanto facili da scatenare quanto difficili da bloccare e la loro dimensione e distruttività può crescere in maniera esponenziale. Per tentare di mitigare questo fenomeno, nell’Ottocento, sempre in Sardegna, prese piede l’istituto delle paches de su sambene, cioè le «paci di sangue»: dei veri e propri patti nei quali l’intera comunità si faceva testimone dell'impegno delle famiglie direttamente coinvolte a interrompere la spirale della violenza.
Le paci di sangue ottocentesche
Un impegno informale tra le parti in causa che poteva essere accolto e perfino ratificato dall'autorità formale. Nel 1813 il notaio Apollinare Fois-Cabras suggellò il termine di una faida che negli anni precedenti aveva visto coinvolte decine di famiglie nei paesi di Tempio, Aggius, Bortigiadas, Calangianus, Luras, Nuchis e Sedini. La pace venne sottoscritta da 1531 rappresentati di tutte le famiglie in lotta e conclusa con un tradizionale banchetto riparatore. In laboratorio le faide sono rare, perché pericolose per il benessere dei singoli. Ma la loro stessa possibilità scoraggia l’utilizzo della punizione altruistica e contribuisce a tenere bassi i livelli di cooperazione. Se vogliamo capire come si siano evolute tutte quelle società che per decine di migliaia di anni non hanno fatto ricorso al potere contrale del Leviatano non possiamo fare affidamento solo alla logica della punizione altruistica; dobbiamo andare a cercare da qualche altra parte.
Fatti come questi fanno riflettere sulla reale applicabilità nel concreto di una governance comunitaria fondata sulla «reciprocità forte» e ci fanno ancora una volta comprendere l'imprescindibilità di un’istituzione di garanzia centralizzata che, nonostante i maggiori costi e le inefficienze, risulta certamente più stabile di un sistema sanzionatorio decentralizzato, soprattutto in una società variegata dove culture differenti si incontrano e dove, per questo, non sempre è facile trovare un accordo su cosa può essere considerato giusto e appropriato. Anche per questa ragione, società complesse come le nostre che si trovano a dover affrontare problemi sempre più complessi, non possono non darsi istituzioni forti e affidabili, guidate da uomini e donne autorevoli, legittimati e legittimate da una partecipazione collettiva alla vita politica vera e non episodica. Ma su questo, probabilmente, abbiamo ancora molto da lavorare.