I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 24/01/2021
Cosa intendiamo esattamente con l'espressione “Per un punto Martin perse la cappa”? Siamo nel XVI secolo e la leggenda vuole che Martino fosse un monaco dell'abazia di Asello, situata probabilmente sull'Appennino toscano. Martino era il sostituto designato dell'ormai anziano abate, Leonildo. Per suggellare il cambio della guardia e la sua promozione con un motto benaugurale e al tempo stesso una dichiarazione programmatica su come avrebbe condotto l'abazia, Martino incaricò un artigiano locale di realizzare un'iscrizione sull'architrave del portale d'ingresso. L'iscrizione, in latino, recitava “Porta patens esto. Nulli clavdatur honesto”, cioè “Porta sarai aperta. A nessun uomo onesto sarai chiusa”. In questo modo il futuro abate intendeva indicare la sua politica di apertura, accoglienza e carità verso tutti coloro che si dimostravano onesti e di buona volontà.
Una lodevole iniziativa, quella di Martino, se non fosse che l'artigiano, come era facile supporre per quei tempi, era del tutto analfabeta e compose l'iscrizione quasi così come gli era stato ordinato. E in quel “quasi” si giocò tutto il destino di Martino. L'iscrizione, infatti, apparve sul portale dell'ingresso principale dell'abazia in questa forma “Porta patens esto nulli. Clavdatur honesto” che, esattamente all'opposto di quanto voleva indicare il monaco, stava a significare “Che la porta non sia aperta per nessuno. Sarà chiusa all'uomo onesto”. Lo spostamento del punto, da prima a dopo la parola “nulli”, una innocua svista per l'artigiano, rappresentava, in realtà, per Martino l'enunciazione di una politica totalmente contraria ai principi dell'ordine monastico che si apprestava a rappresentare. Quel punto dunque era tutt'altro che marginale.
Ma se l'errore fosse stato scoperto e corretto immediatamente, tutto sommato le conseguenze sarebbero state limitate. Il problema si aggravò perché, invece, sulle prime, l'errata collocazione del punto passò inosservata ai più, ma non a tutti. Nelle alte sfere ecclesiastiche la notizia di questo strano messaggio si diffuse molto velocemente e, una volta scoperta la causa dell'errore, la negligenza di Martino nel controllare e verificare la corretta esecuzione del lavoro che aveva commissionato all'artigiano venne considerata un segno di inadeguatezza alla gestione di una realtà al tempo stesso spirituale ma anche molto terrena e complessa come un'abazia. “Uno pro puncto caruit Martinus Asello”. Secondo alcuni fu questa la scritta che infine venne apposta sulla porta di ingresso dell'abazia. “Per un punto Martino pere Asello”, cioè la direzione spirituale dell'abazia, cui tanto anelava.
Questa leggenda mette in luce un punto importante, ma troppo spesso trascurato quando si riflette intorno alla natura degli errori umani e sulle loro conseguenze. Come abbiamo spesso detto, l'errore, infatti, è un elemento necessario alla stessa condizione umana. La vulnerabilità all'errore è il prezzo che dobbiamo pagare per poter godere delle, per altri versi strabilianti, abilità del nostro cervello nel gestire in modo efficace, rapido ed economico, dal punto di vista energetico, l'enorme mole di dati e informazioni che la realtà complessa che abitiamo ci pone di fronte e con la quale dobbiamo confrontarci per poter agire giorno dopo giorno, ormai da centinaia di migliaia di anni.
Gli stessi errori, però, se è vero che spesso non producono effetti rilevanti, altre volte, soprattutto quando si verificano nell'ambito di sistemi tecnologicamente complessi, opachi alla comprensione degli operatori e in ambiti intrinsecamente pericolosi, possono mettere in atto catene di eventi con esiti perfino catastrofici. Per cercare di gestire, da una parte, l'inevitabilità dell'errore tenendo conto, dall'altra, del suo potenziale distruttivo, diventa necessario considerare un altro elemento, e cioè la capacità non tanto di evitare gli errori, ma quella di individuarli quanto più frequentemente e prontamente possibile.
La capacità di individuazione dell'errore (error detection) dovrebbe acquistare, per questo, un posto centrale nel complesso e articolato processo che orienta le nostre azioni nello spazio e nel tempo. Sorprende che su questo punto, invece, proprio in considerazione dell'importanza e delle potenziali conseguenze, la ricerca specialistica sia ancora scarsa e poco sistematica. Nonostante questo, qualcosa su questa cruciale funzione è noto e condiviso dalla maggior parte degli esperti. Per esempio, il primo aspetto è quello che riguarda il fatto che la facilità di individuazione degli errori è fortemente dipendente dalla tipologia dell'errore stesso. Abbiamo più volte, in precedenti appuntamenti con Mind the Economy, utilizzato la classica tassonomia di Rasmussen basata sui tre livelli di performance (Rasmussen, J., 1983. “Skills, rules, knowledge: signals, signs and symbols and other distinctions in human performance models”. IEEE Transactions: Systems, Man & Cybernetics, SMC-13, 257-267).
Il primo livello è quello basato sulle abilità (skill-based), concerne i comportamenti automatici, quasi dei riflessi, che intervengono senza nessuna supervisione di processi coscienti di alto livello. Il secondo livello, invece, riguarda i comportamenti guidati da regole e schemi appresi (rule-based). Il terzo livello indica quei comportamenti elaborati e messi in atto sulla base di specifiche conoscenze, in maniera cosciente e deliberata (knowledge-based).
La scoperta dell'errore nelle attività basate sulle abilità (skill-based) è un'operazione relativamente semplice, messa in atto da dispositivi di natura automatica, come, per esempio, il complesso meccanismo di sensori e retroazioni che contribuisce a tenere il nostro corpo costantemente in equilibrio, o da un processo di confronto immediato, quasi un riflesso, che compara l'esito che si intendeva raggiungere con quello effettivamente ottenuto e ci attiva, nel caso, per porre rimedio. Pensiamo a tutti gli automatismi che si attivano quando guidiamo nel traffico e che ci aiutano costantemente ad aggiornare la traiettoria e la velocità della nostra auto in relazione al mutare incessante delle condizioni esterne.
Per quanto riguarda, invece, i comportamenti basati sulle regole (rule-based) e quelli fondati sulle conoscenze (knowledge-based) il discorso si fa più complesso. La differenza fondamentale riguarda principalmente la velocità e la qualità dei feedback che riceviamo e sui quali ci basiamo per identificare gli errori e correggere le nostre azioni. Ad un estremo troviamo meccanismi del tutto automatici come quelli collegati al sistema vestibolare, che ti tengono in posizione eretta nonostante le asperità del terreno e l'assetto variabile del nostro corpo. Un flusso ininterrotto di azioni e retroazioni che istantaneamente e inconsapevolmente consente la posizione eretta a dei bipedi traballanti. Allo stesso modo se pensiamo all'esempio del traffico: i segnali che ci indicano potenziali errori sono moltissimi, rapidi e, soprattutto per un guidatore esperto, di immediata interpretazione: siamo troppo vicini all'auto che ci precede e che ha acceso i segnali di stop, occorre quindi frenare; siamo troppo vicini alla linea di mezzeria e, visto il camion che sta arrivando nella direzione opposta, è meglio spostarsi un po' più sulla destra della carreggiata. Se, invece, stiamo andando troppo lentamente in autostrada, saranno gli altri automobilisti a mandarci i feedback appropriati.
Sarà capitato a molti ai tempi del liceo o all'università, durante un'interrogazione, di scrutare con attenzione il volto del professore alla ricerca di impercettibili segni esteriori, segni rivelatori del suo stato d'animo, delle sue reazioni alla correttezza o all'insensatezza di ciò che stavamo dicendo in quel momento, per continuare sul sentiero intrapreso, in caso di espressione rilassata e bonaria, o per cambiare radicalmente strategia, in caso di comparsa di inequivocabile espressione di irritato fastidio. Ma se passiamo dalle azioni “skill-based” a quelle “rule-based” e “knowledge-based” la qualità dei feedback cambia drasticamente; questi, quando pure ci sono, diventano, in genere, più lenti, radi e, molto spesso, di non facile interpretazione. Pensiamo a situazioni come fare il pieno di benzina in una macchina a gasolio o ad un errore di stampa in un libro; in questi casi il feedback arriva dopo che l'errore è stato commesso, a volte molto dopo. Quando, per esempio, si mangia la manioca senza processarla in modo adeguato, ci si può accorgere dell'errore compiuto e delle sue conseguenze – avvelenamento da cianuro – solo dopo molti decenni.
Questo ritardo nel feedback rende, naturalmente, l'individuazione dell'errore e, quindi, la sua prevenzione decisamente più complicata. In altre circostanze, invece, come quando diamo il nostro voto ad un certo politico, capire se abbiamo fatto bene oppure abbiamo fatto uno sbaglio può essere molto complesso perché i feedback che riceviamo sono in genere di difficile interpretazione. Se le promesse elettorali non vengono mantenute sarà perché il politico da candidato le aveva sparate troppo grosse o perché, invece, nonostante la sua buona volontà e la sua determinazione gli ostacoli che gli si sono frapposti si sono rivelati oggettivamente insormontabili? Perché nel primo caso si configurerebbe certamente un errore, nel secondo, invece, le conclusioni potrebbero essere più sfumate. Maggiore è il coinvolgimento della deliberazione cosciente e della cognizione di alto livello, maggiore sarà la difficoltà ad ottenere e ad interpretare gli indizi che possono farci capire se stiamo sbagliando e, soprattutto, possono aiutarci a cambiare in corsa le nostre strategie d'azione.
In linea di massima i meccanismi attraverso i quali possiamo procedere all'individuazione dell'errore sono di tre tipi: ci possono essere, come negli esempi della deambulazione eretta o della guida, vari processi di auto-sorveglianza, che si rivelano tanto più efficaci quanto più sono automatici e involontari.
Un secondo meccanismo che può indicarci che abbiamo commesso un errore è quello che crea un ostacolo al procedere dell'azione. Se non introduciamo il pin corretto lo schermo del telefono non si sblocca e le sue funzioni rimangono inutilizzabili. Se non compiliamo tutti i campi obbligatori di quel modulo online, il sistema non mi fa procedere oltre. Se non chiudiamo completamente lo sportello, il microonde non si attiverà anche se continuiamo ripetutamente a spingere il pulsante start. Molte volte queste “forcing functions” sono utilizzate per introdurre richiami e avvertenze precauzionali, come quando prima di chiudere il file su cui stiamo lavorando, il programma ci chiede se vogliamo salvarlo.
Non tutti reagiscono a questi blocchi nello stesso modo. In alcuni casi le reazioni sono non proprio razionali. Quando scattano questi blocchi, la tentazione, a volte, può essere quella di aggirarli non risolvendo il problema, ma attraverso delle vere e proprie scorciatoie. Molto semplicemente, invece di allacciarci la cintura di sicurezza, potremmo, per esempio, far smettere di suonare la spia sonora dell'auto tenendo premuto il pulsante di sblocco o inserendo nell'allaccio un apposito fermo. Più pericolosamente, invece di aspettare che si risollevino le sbarre del passaggio a livello potremmo tentare di attraversare il passaggio sperando di riuscirci prima che sopraggiunga il treno.
Un terzo sistema attraverso il quale gli errori possono essere individuati è il ricorso agli “occhi nuovi” di soggetti terzi. Se dopo aver finito di scrivere questo articolo tentassi, ad una prima lettura, di individuare eventuali refusi, la probabilità di successo sarebbe decisamente bassa, qualcosa sfugge sempre all'autore. Per questo, da anni ormai, una cara amica ogni settimana legge le bozze dei miei Mind the Economy alla paziente ricerca di errori e sviste lessicali o grammaticali. Gli “occhi freschi” degli altri sono una vera e propria garanzia, da questo punto di vista. A volte, come mostrano gli studi, sono l'unico modo per individuare errori in sistemi complessi e in situazioni di stress elevato nelle quali gli operatori esperti si trovano talmente coinvolti da non riuscire ad evadere dalla schematicità della risposta abituale. In tv, Valerio Aprea ha recitato un bel monologo di Giacomo Ciarrapico intitolato “La memoria della mosca”. La protagonista è una mosca che, alla ricerca della libertà, da dentro una stanza, continua imperterrita ad andare a sbattere contro il vetro della finestra nella speranza, necessariamente vana, di riuscire a raggiungere in qualche modo il desiderato giardino. L'errore ripetuto, doloroso e inconcludente, alla fine diventa quasi consolatorio: è sempre lo stesso e quindi prevedibile e perfino rassicurante, ma pur sempre un errore. Ma poi arriva una voce da fuori che insinua un dubbio alla mosca. “Possiamo cambiare mosca – dice la voce – possiamo cambiare tutti insieme, voi mosche e anche tutti noi. Eh, ci stai mosca? La mosca ci pensa un attimo e poi dice, ok ci sto, ma me lo fai un favore, apri ‘sta finestra!”.
Gli “occhi freschi” possono quindi essere i nostri occhi freschi, il nostro sguardo nuovo, una prospettiva inedita su un problema vecchio e apparentemente irrisolvibile. Se gli errori sono inevitabili, e proprio perché gli errori sono inevitabili, dovremmo prestare particolare cura ai meccanismi attraverso i quali gli stessi errori possono essere scoperti, identificati e, magari, anche anticipati. Tanto più la situazione che consideriamo diventa complessa, tanto più la questione dell'errore e della sua identificazione passa da faccenda individuale a faccenda plurale, da singolare a collettiva. Anche per questo imparare a cooperare in un'organizzazione, in una comunità, in una società coesa e inclusiva, acquista un valore sempre più imprescindibile. Gli errori inevitabili si devono affrontare a viso aperto e, se siamo in due o più, è pure meglio.