Profezia è storia

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Ogni vera parola è testamento

 Profezia è storia /2 - La piccole e dure ultime volontà di un grande re confermano che nessuno è come Dio

 di Luigino Bruni

 pubblicato su Avvenire il 09/06/2019

«Davide fu un uomo eccellente dotato di ogni virtù che dovrebbe trovarsi in un re. Era prudente, dolce, gentile con quelli che erano in difficoltà, giusto e umano. E non cadde mai in fallo, eccetto per la moglie di Uriah»

Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche: 390-39

Entriamo nel vivo della storia di Salomone, e continuiamo gli intrighi e gli imbrogli. Che, in controluce, ci rivelano altri messaggi essenziali dell’umanesimo biblico.

 Le grandi storie bibliche continuano a parlarci perché, pur essendo più grandi e più belle di noi, ci assomigliano. È negli esili che le comunità umane possono scrivere i loro capitali narrativi più preziosi. La grande sofferenza di quegli anni, la patria «sì bella e perduta», le umiliazioni, i lavori forzati, le grandi preghiere dei Salmi cantati lungo i fiumi di Babilonia, generarono nel popolo una pietas nuova e profondissima, che divenne uno sguardo nuovo sull’umanità tutta intera. È nei deserti dove si impara il valore dell’acqua; è a contatto con i limiti degli uomini e delle donne ferite e umiliate che si apprende il valore infinito degli esseri umani. La sofferenza nostra e degli altri trasforma l’etica in misericordia, la sola che rende capaci di cantare le ferite umane perché vi sa vedere benedizioni. Occorre una vita intera, se basterà, per imparare a incontrare Dio dentro i peccati del mondo.

Avevamo lasciato Adonia, il figlio maggiore di re Davide e pretendente principe ereditario, in un banchetto sacro con i leader del suo "partito" rivale di quello di Salomone, l’altro figlio di Davide. Tutte le religioni e i culti antichi conoscevano il pasto sacro. Il cibo, in molte civiltà, è stato il primo dono offerto alle divinità. E mentre si offrivano animali uccisi al proprio dio, quel cibo veniva consumato e diventava, spesso, anche sacrificio di comunione tra i membri della comunità. Animali uccisi, quindi sangue e violenza che diventano luogo e linguaggio per il dialogo degli uomini con gli dèi e degli uomini tra di loro. Il cibo era infatti risorsa essenziale della vita e sua stessa immagine, qualcosa di più e di diverso del nutrimento; quindi doveva essere sottratto alle leggi della forza e delle abilità individuali e condiviso comunitariamente – nel clan, nella tribù e nella famiglia devono nutrirsi tutti, anche e soprattutto i più deboli: è questa la prima norma evolutiva che protegge le società dall’estinzione. Non stupisce allora che nella Bibbia e in altri testi sacri antichi gli omicidi e i delitti accadano durante pasti sacrificali, perché l’atto stesso del sacrificio portava inscritta in sé una dimensione intrinseca di violenza e di morte (sebbene, paradossalmente, legate alla vita). Come non ci stupisce che oggi molti meeting di politici e di uomini di affari avvengano durante un pasto, quando il cibo e la commensalità aiutano la creazione di beni relazionali che poi a loro volta oliano le dinamiche decisionali; né che molti conflitti e separazioni inizino a tavola o con cibi preparati e rifiutati, e che rapporti feriti e morti rinascano in un pasto comune, dove risorgiamo nuovamente compagni – cum panis.

Il vecchio Davide non si riscalda più nonostante Abisàg, la sua nuova bellissima concubina. Un’altra donna, sua moglie Betsabea, arriva al suo capezzale. Prima però era stato da lei il profeta Natan, per raccontarle il sacrificio-banchetto di Adonia, dal profeta interpretato come tentativo di auto-proclamarsi nuovo re: «Allora Natan disse a Betsabea, madre di Salomone: "Non hai sentito che Adonia, figlio di Agghìt, è diventato re e Davide, nostro signore, non lo sa neppure? Ebbene, ti do un consiglio (...) va’, presentati al re Davide e digli: o re, mio signore, tu non hai forse giurato alla tua schiava dicendo: Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul mio trono? Perché allora è diventato re Adonia?"»(1 Re 1,11-14).

Natan lo avevamo incontrato nel secondo libro di Samuele, dopo il delitto di Davide nei confronti di Uriah l’Ittita, per strappargli Betsabea. In uno degli episodi emotivamente più forti e tremendi della Bibbia, lì il profeta aveva accusato Davide narrandogli la parabola della pecorella, e aveva prodotto nel re il riconoscimento del suo peccato («Ho peccato contro il Signore»: 2 Sam 12,13). Ora Natan sembra una persona molto diversa. Nella lotta fratricida per la successione, lui è chiaramente dalla parte di Salomone, e trama. Confidando sulla precaria condizione di salute del re, probabilmente inventa la storia del giuramento fatto da Davide a Betsabea («tuo figlio sarà re dopo di me»), del quale non vi è traccia nei libri di Samuele. Si comporta dunque come profeta di corte, un Richelieu, fine macchinatore di intrighi di palazzo. Eppure la storia precedente ci aveva rivelato la sua natura di profeta non-falso. Anche un profeta vero può compiere azioni moralmente dubbie e ambigue. La Bibbia ci dice che anche i profeti sono persone fragili e magari peccatrici. Non sono le loro debolezze e i loro peccati a dirci che sono falsi profeti. La profezia non è una qualità morale delle persone. Ci sono stati, e ci sono ancora, falsi profeti moralmente irreprensibili, che sono falsi non perché bugiardi o in cattiva fede ma perché parlano in nome di una voce che, oggettivamente, non c’è; come ci sono stati e ci sono, nella Bibbia e nella vita, profeti veri che hanno commesso delitti e peccati, ma erano e sono abitati da una voce vera e che onestamente riferivano al loro popolo. Sarebbe troppo semplice se bastasse la condotta morale di una persona a rivelarci la verità della sua vocazione – la vocazione e la santità di una persona sono due cose distinte, anche se, spesso interagiscono tra di loro (ma non sempre e non in tutti allo stesso modo). Questa distinzione è la principale ragione che spiega perché le comunità non riescono quasi mai a riconosce i profeti veri e li confondono con i falsi in buona o cattiva fede.

Betsabea ascolta il consiglio di Natan, si reca da suo marito Davide e gli racconta la storia su Adonia. Mentre i due parlano nella stanza arriva (come promesso) Natan che rafforza la versione di Betsabea. E anche questa volta Davide continua ad ascoltare, credere e obbedire alle donne: «Il re Davide, presa la parola, disse: "Chiamatemi Betsabea! (...) Come ti ho giurato per il Signore, Dio d’Israele, dicendo: Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul mio trono al mio posto, così farò oggi"» (1,28-30).

Natan, forse, sapeva cosa fosse Betsabea per Davide, quella donna bellissima che lo aveva incantato e gli aveva sconvolto la vita. E, da acuto stratega, per manipolare Davide ricorre all’arma più potente. Erano passati molti anni da quando Davide l’aveva vista dalla sua terrazza. Era invecchiata, ma certi fascini, come una diversa luce degli occhi, non invecchiano mai. Alcune beltà, almeno una, non sono cancellate dal tempo, il loro incantesimo dura per tutta la vita. Se così non fosse, nell’ultimo saluto non potremmo rivedere lo stesso sguardo del primo incontro.

Davide ordina a Natan e al sacerdote Sadoc di ungere Salomone re (1,34-35). Le trame di Natan hanno successo. In questo episodio decisivo della storia di Israele ritroviamo un’altra costante narrativa della storia biblica. In molte scelte decisive la volontà divina non segue le regole della Legge, il primo diventa l’ultimo, e l’ultimo il primo. Queste inversioni dell’ordine naturale-divino delle cose accade, quasi sempre, quando si intromette un profeta e/o una donna. La profezia è un principio che scardina le leggi dell’ordine costituito e che scompagina l’andamento naturale delle comunità. Se non ci fossero i profeti (e alcune donne) i forti e i potenti non sarebbero mai deposti dai loro troni, gli ultimi resterebbero ultimi per sempre, la vita non ci sorprenderebbe mai e tutto sarebbe tremendamente noioso e scontato, gli umili non sarebbero mai esaltati, nessun povero si sentirebbe chiamare "beato".

Consacrato Salomone, Davide muore e lascia il suo testamento: «Io me ne vado per la strada di ogni uomo sulla terra. Tu sii forte e móstrati uomo. Osserva la legge di YHWH, tuo Dio, procedendo nelle sue vie ed eseguendo le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e le sue istruzioni, come sta scritto nella legge di Mosè» (2,2-4). E quindi Davide pronuncia le sue ultime parole. Il compositore e cantore di salmi, il poeta e l’innamorato di Dio, termina la sua vita impartendo disposizioni per regolare conti ancora aperti con alcune persone che chi ha letto i libri di Samuele conosce molto bene: «Anche tu sai quel che ha fatto a me Ioab, figlio di Seruià (...). Agirai con la tua saggezza, e non permetterai che la sua vecchiaia scenda in pace agli inferi. Agirai con bontà verso i figli di Barzillài il Galaadita (...). E Simei, figlio di Ghera, Beniaminita, di Bacurìm; egli mi maledisse con una maledizione terribile (...). Farai scendere la sua canizie agli inferi con morte violenta» (2,5-9). Potevamo aspettarci qualcosa di diverso e di meglio dal testamento di Davide, l’amatissimo dalla Bibbia. Altri patriarchi erano morti lasciandoci in eredità parole molto più divine e umane. Davide invece resta avvolto nell’ambiguità morale fino alla fine. È questo un altro, efficace, linguaggio con cui la Bibbia ci dice: nessuno è come Dio. E quindi gli uomini, anche i più grandi, non devono diventare idoli. La lotta anti-idolatrica della Bibbia si è espressa anche nel donarci affreschi etici non idealizzati dei suoi uomini e donne più grandi – e così li rendono migliori: curano le loro piaghe morali mentre ce le mostrano.

Colpiscono infine le parole riguardanti Simei, il beniaminita del partito sconfitto di Saul. Davide a distanza di anni, in punto di morte, continua a sentire il peso di quelle parole di maledizione scagliate contro di lui. Nell’umanesimo biblico le parole sono cose serissime. La parola crea, feconda, risorge. Le parole di YHWH e – diversamente, ma veramente – anche le nostre. La benedizione di Dio e quella di un amico sono il dono più grande che possiamo ricevere, quando quella parola buona ci raggiunge, ci ama, ci cambia, diventa vento-ruah che risuscita le nostre ossa del cuore rinsecchite. Le parole non sono vanitas – soffio e fumo – perché agiscono nella nostra anima e nel nostro corpo; perché sono carne. Ma la Bibbia è troppo vera per non assumersi anche la responsabilità dei costi: se le parole buone ci benedicono e ci fanno bene, allora quelle cattive ci maledicono e ci fanno male. Restano vive, agiscono come un batterio morale nel cuore. Simei aveva pronunciato parole terribili contro Davide. Erano ancora lì, nel suo capezzale, e gli sussurrano le ultime parole. Gli facevano ancora male forse perché erano parole vere («tu Davide ti meriti la guerra che ti sta facendo tuo figlio Assalonne, perché anche tu hai combattuto tuo "padre" Saul»). Soltanto le parole vere, ma pronunciate senza amore, sono capaci di maledirci. Le parole vere devono essere maneggiate con una cura infinita. Sono testamento, perché hanno la forza della vita e della morte.

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