L' economia di comunione di Chiara

Bruni, Luigino
L’economia di comunione di Chiara
Quando un carisma cambia anche l’economia
in Nuova Umanità n.177, vol.XXX, 2008/3link.gif

«Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore?»
(T. Todorov)

1. INTRODUZIONE
Ho ricevuto il dono di accompagnare Chiara per dieci anni affiancandola nel tentativo di dare dignità scientifica all’Economia di Comunione (EdC). Questo breve saggio è soprattutto un atto di riconoscenza a Chiara, e alla sua EdC, per la grande opportunità che mi ha dato di conoscere da vicino e studiare questo progetto.

Poter vedere e toccare con mano un carisma che si fa storia, anche storia civile ed economica, è stata per me un’esperienza straordinaria, e non solo in quanto persona, ma anche in quanto economista e studioso di faccende sociali.

L’esperienza fatta in questi anni mi ha fatto maturare un’idea che oggi è convinzione profonda: chi racconta e legge la storia civile ed economica senza vedere il ruolo dei carismi, racconta una storia parziale e quindi sbagliata. Quando i carismi sono all’opera nelle dinamiche civili, con essi entra in scena una dimensione dell’azione caratterizzata da una forza straordinaria e rara, quella che la teologia e il pensiero cristiano hanno voluto chiamare «agape», coniando, di fatto, una nuova parola greca, perché nuova era l’esperienza che i cristiani facevano e fanno grazie alla vita e al messaggio di Gesù. Con i carismi irrompe nella storia l’agape, che fa il suo ingresso dentro e fuori i confini istituzionali della Chiesa, data la natura universale del cristianesimo, il cui soffio tocca e muove persone di tutti i tempi e luoghi, che se e in quanto portatori di un carisma, sono portatori di agape, anche quando inconsapevoli.

Esiste uno strettissimo rapporto tra carisma e agape. Un carisma è un dono dello Spirito per l’edificazione del bene comune, un termine che viene da charis, quella grazia che è anche la fonte dell’agape. Si potrebbe, e si dovrebbe, parlare dell’economia nata dal carisma dell’unità a partire dall’agape, se pensiamo a tutte le volte che Chiara parlando dell’EdC l’ha definita «tutta amore, tutta una costruzione d’amore», tutta agape dunque. In queste pagine parlerò invece di carisma, di economia carismatica: le poche righe che precedono hanno lo scopo di mostrare che l’economia carismatica è anche economia agapica.

Alcuni grandi carismi hanno avuto effetti anche nell’ambito economico. Si citano, a questo riguardo, sempre Benedetto e Francesco; ma sono state centinaia se non migliaia le persone, portatrici di carismi, e per questo mosse dall’agape, che hanno animato anche la vita economica, dando vita ad opere di carità, di assistenza, di misericordia, il cui peso nella storia è assolutamente sottovalutato.

Pochi carismi, invece hanno prodotto un impatto anche nel pensiero economico del proprio tempo. Il monachesimo, lo sappiamo, ha creato il lessico economico della rivoluzione commerciale dell’Europa attorno all’anno mille; il francescanesimo, dal canto suo, ha dato vita alla prima vera e propria scuola di pensiero economico (Ockham, Scoto, Olivi…), che ha fornito le categorie per interpretare la civiltà cittadina, prima, e quella rinascimentale dopo.

Il carisma dell’unità di Chiara va annoverato a fianco dei carismi di Benedetto e di Francesco, poiché esso non ha solo prodotto opere economiche (tra cui l’EdC), ma ha ispirato anche la riflessione teorica in economia, esattamente come fecero, nel loro tempo e nei loro modi, Benedetto e Francesco.

Analogamente, la novità dell’EdC è essenzialmente una novità culturale e teorica; o, in altre parole, la novità del progetto EdC va colta in un orizzonte culturale più ampio rispetto alla sola dimensione della prassi (aziendale, progetti di aiuto ai poveri, ecc.).

2. UNA PROPOSTA ECONOMICA A PARTIRE DAI POVERI
L’EdC non è primariamente una formula organizzativa per un’azienda più etica o socialmente più responsabile: è un progetto per un umanesimo più giusto e fraterno. L’EdC nasce durante un viaggio di Chiara in Brasile, dal suo incontro con le favelas. Fu la sofferenza provata da Chiara al pensare che persone, tra cui anche alcuni suoi “figli”, abitavano in quelle condizioni disumane, a originare l’intuizione dell’EdC. Non fu quindi un’esigenza di rendere le imprese più etiche o più umane, ma l’esigenza di dare il suo contributo, tramite il Movimento, ad un mondo più giusto, con meno persone costrette a vivere in condizioni spesso disumane. Ecco perché l’EdC non può e non deve diventare un progetto di corporate social responsibility: non è nata per rinnovare le imprese, ma per rinnovare il mondo.

La prima idea di Chiara sulle imprese fu considerarle come “produttori” di ricchezza (utili) e di posti di lavoro. È stato dal dialogo tra lei, gli imprenditori e gli economisti 1 (Alberto Ferrucci e Benedetto Gui hanno avuto un ruolo particolare in questo processo) che Chiara ha esteso il progetto nato in Brasile al rinnovamento della vita interna ed esterna delle imprese, un’estensione che nel 1997 produsse, a sei anni di distanza dalla nascita, il documento Linee per condurre una impresa EdC. Un documento, questo, che tentò una prima traduzione della novità dell’EdC nella vita ordinaria di un’impresa che volesse vivere la cultura della comunione, e lo fece a partire dai sette “aspetti” o “colori” che sono la formula che la spiritualità dell’unità ha prodotto in tutte le organizzazioni cui ha dato vita il Movimento dei Focolari 2.

Detto in altre parole, la novità nella gestione delle imprese che è nata naturalmente (e necessariamente) dal progetto poteva avvenire anche senza il lancio dell’EdC nel 1991: era parte della evoluzione dell’azione del carisma, che col tempo estende le sue intuizioni antropologiche e sociologiche ad ambiti umani sempre nuovi (politica, diritto, psicologia, sociologia, ecologia…). La novità specifica del 1991, il suo novum, va cercata in altro, come cerco di dire in quanto segue.
Al tempo stesso, c’è anche una dimensione “carismatica” nell’evento del 1991, rilevante per l’istituzione impresa. Chiara, per rispondere ad un problema essenzialmente di ingiustizia e di sbagliata distribuzione dei beni, pensa alle imprese come naturale “strumento”. La normale logica delle cose avrebbe portato a pensare ad altre istituzioni: fondazioni, ONG, attività di fund raising.
Infatti, la missione naturale dell’impresa tradizionale è quella di creare posti di lavoro, di produrre prodotti, beni e servizi; non ha cioè, come scopo ordinario, un prevalente scopo redistributivo della ricchezza (anche se non può neanche essere totalmente escluso: si pensi alle imposte, ma anche ai salari). Chiara invece, carismaticamente, nel 1991 pensò all’impresa tradizionale (o cooperativa
di produzione) 3, invitandola, così, a trascendersi e ad andare oltre la sua normale vocazione.

3. UN’ECONOMIA ESPRESSIONE DI UN CARISMA
Una seconda importante caratteristica dell’EdC è il suo essere espressione di un carisma. Nell’originale visione che H.U. von Balthasar ci ha offerto della Chiesa, articolata attorno ad alcuni profili fondativi e co-essenziali, l’EdC appartiene al profilo mariano o «carismatico», non a quello «istituzionale» 4. Ci sono alcune caratteristiche che si ritrovano in molte esperienze sociali che nascono da carismi. Elenco quelle che mi paiono fondamentali. La prima. Le esperienze che nascono dai carismi affermano il primato della vita rispetto alla teoria. Sono, pertanto, esperienze popolari, che nascono sempre dalla prassi, mai da tavoli di esperti o di  professionisti. Non si implementano progetti, ma si resta in ascolto attento della vita, dalla quale nascono le intuizioni, e che ha sempre una sua carica di verità. Quindi, di fronte ad una discordanza tra quanto si vive e quanto si dovrebbe vivere secondo una buona teoria (anche la migliore), la discordanza non si risolve mai dicendo semplicemente di cambiare la prassi, perché l’esperienza vitale incorpora di per sé elementi di verità imprescindibili, che si rivelano poi essenziali per il successo e l’autenticità del progetto stesso. Nell’EdC questa prima dimensione è ben evidente. Di fronte allo spettacolo della miseria e
dell’iniqua redistribuzione, Chiara non ha esclamato: «Facciamo sorgere un centro studi per studiare una nuova economia». La sua proposta fu invece un’azione immediata, sulla base di poche intuizioni (essenzialmente i tre terzi nella ripartizione degli utili, i Poli industriali inseriti nelle cittadelle, e il «siamo poveri ma tanti »), lasciando alla vita di indicare come procedere passo dopo passo. Diversi sono i progetti di «lotta alla povertà», promossi dalle istituzioni, dallo Stato ad esempio.

Nell’economia carismatica, come è l’EdC, la vita viene prima della riflessione teorica che sempre l’accompagna, perché la vita è più densa di verità di qualunque teoria (la quale serve la vita se da questa nasce e da essa si alimenta).

C’è poi un secondo aspetto tipico delle esperienze di economia carismatica. Queste esperienze nascono come risposta d’amore a problemi di persone concrete. Chiara attraversa la città di San Paolo e viene colpita dal pensiero che in quelle favelas c’erano delle persone del suo Movimento, dei membri della sua famiglia.

L’EdC nasce per loro, non nasce mai in astratto, nasce in concreto. È sempre qualcosa di vitale, di vivo, di carne. Poi, una volta venuti all’esistenza, se sono progetti autenticamente carismatici, mostrano anche la loro portata universale, che poteva anche non essere coscientemente presente o, almeno, non veniva espressa, al momento dell’ispirazione originaria. La terza caratteristica. Queste esperienze carismatiche mettono in discussione l’idea di ricchezza e quella di povertà. San Francesco è anche qui un modello paradigmatico: si converte e torna dal viaggio a Spoleto, e subito getta via il ricavato dei suoi affari, perché capisce che i veri beni sono altri: la povertà scelta che diventa la sua nuova ricchezza.

Ogni volta che arriva nella storia economica un carisma rimette in discussione il concetto di “bene”. Dice che i veri beni, le “cose buone” non sono quelle comunemente intese: i soldi, il potere, il successo. I beni diventano la povertà, gli ultimi, la comunione, non l’avere ma il dare. Un carisma, soprattutto se grande, ribalta la visione ordinaria delle cose, e dei beni. Una quarta caratteristica, che è anche una nota sintetica delle precedenti: le esperienze carismatiche sono dei doni di “occhi diversi” che fanno vedere, nei problemi, delle cose belle. Quando c’è un carisma all’opera, chi ne partecipa vede qualcos’altro, è un dono di uno sguardo nuovo. Ad esempio, quando qualcuno parlava dei poveri a Teresa di Calcutta, lei amava ripetere: «Non chiamateli problemi, chiamateli doni».

4. I BENI E LA POVERTÀ
Fin qua l’economia carismatica. L’EdC, nascendo da un carisma, condivide tutte queste caratteristiche che si riscontrano in tutte le esperienze di economia carismatica.
C’è uno specifico del carisma dell’unità di Chiara all’interno della grande storia carismatica? Sono convinto di sì. Uno specifico esiste, e va colto a partire dalla specificità del carisma dell’unità in generale. Le due note (che poi sono una) fondamentali del carisma di Chiara sono l’unità e Gesù Abbandonato. L’unità, che potremmo anche declinare in “comunione”, è la vocazione profonda di chi partecipa di questo carisma, ed è anche la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Gesù Abbandonato, è la chiave per vivere l’unità, per costruirla anche quando manca la reciprocità, trasformando dolore in amore, “ferite” in “benedizioni”. Ma la forma di dolore che l’ideale dell’unità fa vedere, amare e trasformare non è tanto il dolore fisico quanto il dolore spirituale, il dolore dei rapporti spezzati, dell’unità che manca, degli abbandoni.

Quindi è un dolore che nasce soprattutto da rapporti feriti e dalla disunità.
Quale è, allora, lo specifico di un tale carisma quando opera nell’ambito economico? Innanzitutto, lo specifico del carisma non si limita alla sola EdC, ma abbraccia ogni ambito della vita economica.
Proviamo a delineare alcune caratteristiche che emergono quando il carisma dell’unità si esprime nell’ambito del consumo, del rapporto con i beni, e quindi della povertà. Lo stile di consumo di chi vive il carisma dell’unità è la comunione dei beni. La nota tipica del carisma dell’unità, relativamente al rapporto con i beni, è la comunione: non si rinuncia a tutto per indicare un “oltre” trascendente, ma si mettono i beni in comune per indicare un “oltre” che è anche in mezzo alla comunità.

Francesco ci indica prima di tutto la povertà come via di santità, di liberazione dalle merci per il bene con la “B” grande che è Dio. Chiara ci propone la stessa radicalità nel rapporto con i beni, ma mettendoli in comune con gli altri in vista dell’unità.

Anche in un (ipotetico) mondo senza poveri, lo stile di vita del carisma dell’unità rimarrebbe la comunione dei beni, perché alla luce di questo carisma si comprende che i beni diventano “più beni” quando sono messi in comune; mentre il bene non condiviso diventa un male. Il bene tenuto stretto, come geloso possesso, in realtà impoverisce il suo possessore, perché lo spoglia della capacità di dono e di reciprocità, che è il vero patrimonio umano che porta alla felicità (come ormai anche studi empirici mettono abbondantemente in luce). È questa la ragione per la quale nel carisma dell’unità la comunione dei beni è all’origine della sua tipica socialità, come pietra angolare. A Trento il Movimento dei Focolari non ha iniziato la sua vita creando strutture di assistenza o gruppi di preghiera, ma realizzando una grande azione di comunione dei beni tra centinaia di persone, frutto della Parola vissuta.

Inoltre, il carisma dell’unità ci fa capire che le forme di miseria hanno molto a che fare con i rapporti, e molto meno di quanto comunemente si pensi con le merci. Si cade in miseria (come singoli ma anche come comunità o popoli) quando si spezzano le relazioni. Questo aspetto ha molto a che fare anche con il progetto dell’EdC. Quando con gli utili donati dalle imprese si cerca di aiutare un indigente, il primo aiuto è l’offerta di un rapporto di prossimità e di reciprocità. La prima cura della povertà è il rapporto stesso. Prima dell’aiuto materiale, con il povero si stabilisce un rapporto, la comunione, la prossimità. Lì incomincia la vera cura: e senza questo “prima” nessun aiuto è efficace dalla prospettiva della comunione.

Da questa visione della povertà nasce anche un modo tipico di leggere, culturalmente e teoricamente, la miseria: essa ha sempre  a che fare con rapporti sbagliati o malati. Quando, all’interno dell’EdC, si vuole curare delle forme di povertà, indigenze di beni, di cultura, di istruzione, di vestiti, di case, la prima domanda da cui si parte è sempre: «Quale rapporto non funziona in questa situazione? In questa famiglia, in questa comunità, quale rapporto errato o malato ha prodotto questa povertà materiale?». La cura di ogni forma di indigenza è sempre primariamente una cura di rapporti: rapporti interpersonali, ma anche cercare di cambiare naturale.

Dalla prospettiva dell’unità e della comunione, alla povertà (e alla ricchezza) si guarda sempre a partire dai rapporti, data la specifica vocazione del carisma dell’unità. Quindi, per un esempio, quando una famiglia vive nella miseria, il punto di partenza è capire, entrando in rapporto con essa, quali rapporti non funzionano (tra marito e moglie, tra genitori e figli, nella comunità…).

Magari, dopo un primo sguardo, si può scoprire che quella miseria dipende da una comunione dei beni che non funziona più, da un’assenza di fraternità nella comunità. In questi casi, prima di qualsiasi aiuto materiale, il vero intervento importante da fare è riattivare la comunione dei beni nella comunità locale, e solo in un secondo momento lanciare iniziative di aiuto concreto – è questa una modalità di azione, tra l’altro, in linea con il principio di sussidiarietà della Dottrina Sociale della Chiesa. È questa anche la ragione per la quale gli interventi dell’EdC sono  rivolti a persone inserite in comunità vive, altrimenti non si verificano tutte quelle caratteristiche che fanno sì che la comunione (lo scopo del progetto) possa realizzarsi. Questo aspetto rappresenta, al tempo stesso, il limite e la profezia dell’EdC.

5. LA SFIDA
L’Economia di Comunione, con le centinaia di aziende che si ispirano al progetto EdC, non esaurisce le esperienze economiche che nascono dal carisma dell’unità. Lo abbiamo già accennato parlando del consumo e del rapporto con i beni. Prima del 1991 migliaia di persone hanno cercato di vivere nel proprio lavoro, e nelle organizzazioni, la cultura dell’unità. E anche dopo il lancio dell’EdC migliaia di persone hanno continuato a vivere, sia come singoli, sia come gruppi, sia come organizzazioni (cooperative, ONG…), la cultura dell’unità nelle dinamiche economiche. Tutte le esperienze economiche che nascono dal carisma dell’unità hanno in comune un’altra caratteristica (oltre a quelle accennate): sono sempre fraterne, semplici, di popolo. «Siamo poveri, ma tanti», fu lo slogan che Chiara lanciò in Brasile nel 1991.

Questa è la caratteristica di esperienze che nascano da un carisma che fa dell’amore scambievole, della relazione, della fraternità e dell’unità il suo specifico. Le esperienze economiche “chiariane” (se posso usare questa espressione) non sono mai esperienze dove c’è un filantropo, o un grande imprenditore, che dà il superfluo ai “poveri”, senza mettere in discussione la propria vita e diventare
lui (o lei) stesso fratello e uguale a quei “poveri” che aiuta. Quando una persona povera, che con mille sacrifici ha acquistato un’azione 5, porta il proprio figlio nel Polo e dice con orgoglio: «questo Polo, questa nuova economia, è anche mia», si realizza una delle esperienze più innovative e profetiche dell’EdC. Per questa stessa ragione, un’impresa resta pienamente EdC anche quando non ha utili da donare, ma al suo interno si lavora e si produce in una cultura della fraternità.

Se nel tempo l’EdC perdesse questa dimensione fraterna del «siamo poveri ma tanti», credo che esaurirebbe presto la sua spinta profetica. Sono infatti convinto che se nell’EdC si donassero molti milioni di euro “per” i poveri, ma questa ricchezza non nascesse da imprenditori e da lavoratori che vivono per primi la povertà e la fraternità, non porterebbe i frutti tipici del carisma dell’unità, che sono frutti di comunione, di gioia, di festa, di gratuità, di Provvidenza.

Oggi l’economia e il mercato hanno un bisogno vitale di comunione, di felicità, di festa e di Provvidenza: l’EdC resterà economia “chiariana” se sarà giorno dopo giorno sempre più capace di produrre questi suoi tipici “beni”.

* Ringrazio Leo Andringa, Antonio Maria Baggio, Cristina Calvo, Luca
Crivelli, Alberto Ferrucci, Benedetto Gui, Vittorio Pelligra, Alessandra Smerilli,
per i preziosi suggerimenti, non solo relativamente a questo saggio, ma all’intera
mia riflessione sull’EdC.
1 Tra questi penso in particolare a Vera Araújo, Benedetto Gui, Alberto
Ferrucci, Tommaso Sorgi, e altri.
2 È importante notare che l’ultimo messaggio che Chiara ha scritto all’EdC
(30 novembre 2007) è di nuovo centrato sull’importanza di tradurre la logica dei “sette colori” all’interno dell’organizzazione d’impresa.
3 Dalle conversazioni di quei giorni di fine maggio in Brasile emerge che la forma di impresa che Chiara aveva in mente era anche quella cooperativa (come la Loppiano Prima).
4 Per un approfondimento di questo aspetto, rimando al mio Il Prezzo della gratuità, Città Nuova, Roma 2006, dove, nel capitolo 1, indico la possibilità di un profilo carismatico anche nella dinamica civile ed economica, non solo in quella ecclesiale. Sempre a questo breve saggio rimando per una presentazione del progetto dell’Economia di comunione (EdC), e per l’argomentazione teorica di tesi che in questo saggio non sviluppo.
5 Occorre sempre tener presente che Chiara propose anche alle persone
povere delle favelas di acquistare le azioni del Polo Spartaco, con rate mensili. E
così è stato.

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