Reciprocità e gratuità dentro il mercato

Bruni, Luigino

Reciprocità e gratuità dentro il mercato
La proposta della Caritas in veritate

pubblicato su Aggiornamenti Sociali, n.01/2010

1001_Agg_Sociali_ridL’enciclica Caritas in veritate1 di Benedetto XVI è un testo di grande ricchezza e complessità, che merita di essere approfondito.
Dopo una sintetica presentazione nell’editoriale del numero di settembre-ottobre 2009 2, a partire da questo numero Aggiornamenti Sociali dà il via a un Forum dedicato all’enciclica, con l’intenzione di offrire diverse prospettive di lettura del documento. Il primo intervento è affidato al prof. Luigino Bruni, economista, che affronta il ruolo delle categorie di reciprocità e gratuità nella teoria economica.

Reciprocità e gratuità dentro il mercato

 

La novità più rilevante dell’enciclica Caritas in veritate (CV) per la teoria e la prassi economica contemporanee è l’affermazione che  la reciprocità e la gratuità sono principi fondativi anche per l’economia e per il mercato. E non solo per il mercato non profit, per il volontariato o l’economia sociale, ma per l’intera vita economica ordinaria, dalle banche alle imprese multinazionali. Si tratta di una tesi che può suonare rivoluzionaria, davanti alla quale è legittimo chiedersi se abbia un fondamento teorico. Poter rispondere affermativamente a questa domanda richiede prima di tutto di sgombrare il campo teorico da interpretazioni scorrette, o quantomeno parziali, dei concetti di reciprocità e gratuità. Infatti l’uso corrente di questi termini, e quello che ne fa la scienza economica in particolare, è certamente diverso da quello che ritroviamo nella CV.
Solo dopo aver discusso criticamente queste categorie sarà possibile comprendere in quale senso e per quali ragioni esse possono trovare un ruolo significativo nell’attuale economia di mercato.

1. La reciprocità

 

Per chiarire il concetto di reciprocità, prendiamo le mosse da un articolo che ha avuto molta eco, pubblicato qualche anno fa in una delle più autorevoli riviste di teoria economica3.

Gli autori, due noti economisti, presentavano una teoria della reciprocità che sosteneva che una persona altruista dovrebbe scegliersi come partner una persona indifferente e non altrettanto altruista, e fornivano questa ragione: «Un altruista sarebbe rattristato dal basso livello di felicità del proprio partner. Ma, se anche quest’ultimo si preoccupa per il proprio partner, ecco che sarebbe a sua volta in pena per il fatto di averlo reso infelice»4 . In altre parole, secondo questa teoria della reciprocità, se il benessere di una persona (A) dipende anche dal benessere dell’altra (B), e se il benessere di B dipende da quello di A, quando A sta male B soffre per questo, e ciò fa sì che A stia ancora peggio per il fatto che B soffra per lui, e così via, in una spirale crescente di sofferenza. L’indicazione strategica contenuta in questa teoria è che se si vuole evitare di soffrire troppo nei momenti difficili, è necessario scegliersi partner ai quali non si interessa troppo, in modo che questi meccanismi non si inneschino.

Interessante è la critica che muove l’economista britannico Robert Sugden a quell’articolo: «Tale ipotesi è in contrasto l’esperienza. Quando siamo infelici, desideriamo qualcuno che condivida i nostri sentimenti; questo ci fa sentire meno infelici, non più infelici. Vogliamo partner che entrino in sintonia con noi nella gioia e nel dolore»5.
Che cosa non funziona allora nel modo di trattare la reciprocità nella teoria di Bernheim e Stark? E, in generale, che cosa non funziona nella maggior parte dei modelli teorici che oggi trattano la reciprocità nelle scienze sociali, che si basano sostanzialmente sulla stessa ipotesi? A nostro avviso il punto debole di tutto l’impianto è voler trattare la reciprocità come una questione di preferenze individuali 6, quando in realtà essa è primariamente una relazione e non una somma di preferenze individuali.  Per studiare correttamente la reciprocità sarebbe necessario un linguaggio, anche matematico, in grado di descrivere relazioni e non solo preferenze e scelte di individui: se la reciprocità arriva in un secondo momento, la relazione sarà sempre necessariamente strumentale. Un tentativo importante in tale direzione è la teoria della «we rationality» («razionalità del noi» 7), sviluppata da economisti quali Robert Sugden, Michael Bacharach, Alessandra Smerilli e altri, che tenta di leggere la relazione come un dato primitivo, senza rinunciare — e qui sta il punto — al primato della persona per un indistinto olismo o un astratto «noi».

Vi è poi un secondo elemento problematico nella teoria attuale della reciprocità: la dimensione di socialità genuina presente in un comportamento di reciprocità è misurata semplicemente attraverso il sacrificio dei benefici «materiali » per premiare o punire l’altro a proprie spese. Con ciò non si vuole sostenere che il sacrificarsi per punire o premiare altri non svolga una funzione civile — si pensi a chi rimprovera a proprio rischio chi butta cartacce per strada —, ma anche in questo caso l’attenzione va ai comportamenti individuali, perdendo di vista che la reciprocità è un rapporto. Queste teorie della reciprocità restano sostanzialmente individualiste, sebbene con contenuti dell’azione individuale di tipo altruistico o pro-sociale.

Come conseguenza, la reciprocità è intesa unicamente come «scambio di doni»: solo questa è considerata reciprocità vera o autentica, mentre le altre forme di scambio dei contratti, dei mercati, dell’economia cosiddetta «normale» vengono definite «reciprocità cattiva», perché non disinteressata e non altruistica. Buona parte del pensiero comunitarista 8 oggi si muove in questa direzione, rifacendosi al pensiero di Aristotele come capostipite di tale tradizione 9. Peccato che Aristotele non la pensasse affatto così: per lui la reciprocità, l’antipeponthós, nell’Etica Nicomachea (1132 b 21) era il «legame sociale», ciò che tiene assieme la vita della polis, una reciprocità che nella sua visione si estende dalle relazioni di mercato fino all’amicizia (philía) di virtù. Anche la parola latina reciprocus etimologicamente deriva da recus (indietro) + procus (avanti): ciò che viene e che va, che parte e che torna vicendevolmente 10. La reciprocità quindi è molto più del solo scambio di doni, che certamente è una forma di reciprocità, ma non l’unica.

Soprattutto, il dono non va considerato in linea di principio in contrasto con la reciprocità (dove si dà e si riceve) e con le varie forme di reciprocità economica che si vivono nelle imprese, nei contratti, nei mercati. Se così fosse, saremmo incapaci di comprendere fenomeni civilmente importanti, e non a caso citati nell’enciclica, quali il commercio equo 11, la microfinanza 12, l’economia di comunione 13, l’impresa sociale, e si confinerebbe la buona reciprocità in un ambito troppo angusto della vita civile ed economica. La storia, in particolare quella recente, dimostra che le persone si liberano veramente dalle trappole dell’indigenza e dell’esclusione più frequentemente con contratti che con regali 14.

Da questa prospettiva è possibile trovare una profonda coerenza tra la CV e la prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est (2005), dove si sottolineava la forte unitarietà dell’amore umano: l’amore è, al tempo stesso, uno e molti. L’amore ha varie forme: è erotico, amicale, agapico, ma — ribadiva il Pontefice —, tra le varie forme non c’è opposizione, ma potenziale armonia, reciprocità. Amori diversi, ma ognuna delle tre forme risponde a una chiamata all’amore; il dono dell’agape infatti è amore sostenibile e pienamente umano se ha la passione e il desiderio dell’eros e la libertà della philía. Solo un amore a più dimensioni è davvero amore cristiano, e quindi pienamente umano.

Questa stessa esigenza di coerenza e di pensiero non dicotomico si ritrova nella CV. Un dono non è un contratto, nondimeno entrambi possono essere forme di buona reciprocità; ugualmente possono essere, entrambi, forme di cattiva reciprocità: quando il contratto nasconde sfruttamento del debole, e quando il dono maschera rapporti di potere e di dipendenza 15.

2. La gratuità

Nella CV si parla di gratuità e di dono, e se ne parla come di parole riguardanti il mercato, l’ordinario svolgersi dell’economia: «anche […] nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» (n. 36).

Benedetto XVI utilizza le espressioni «dono» e «gratuità» come sinonimi, dimostrandosi in questo senso un innovatore rispetto alla scienza economica che associano il dono al comportamento altruistico o filantropico, e in generale a un contenuto (a un «che cosa») dell’azione umana. Il dono che ritroviamo nell’enciclica invece è soprattutto un «darsi», un donarsi della persona, che quindi attiene prima all’essere e poi all’agire, un’azione che può assumere varie forme: è quindi una modalità dell’azione — un trascendentale direbbero i medioevali — un «come» si agisce. Questo è il significato più vero e profondo della gratuità-dono e in questo senso possiamo e dobbiamo trovare la gratuità nello svolgimento di ogni tipo di azioni, anche nell’esercizio del doveroso, del contratto, del mercato, dell’impresa.

Il dono-gratuità non è quindi il gadget, lo sconto, i regali, i punti dei programmi di fidelizzazione, che sono il dono che normalmente conosce il mercato tradizionale e che in genere non hanno nulla della gratuità e della sua natura più profonda ed esigente. La gratuità vera pone, infatti, di fronte all’altro senza mediatori, rende vulnerabili, poiché va oltre al calcolo delle equivalenze e delle garanzie. Essa è sempre potenzialmente una ferita, e per questo suo insopprimibile rischio tragico la modernità l’ha espunta dai mercati e dall’economia, accontentandosi di categorie più innocue e trattabili.

Questa gratuità autentica si ritrova, ad esempio, in due autori, molto diversi tra loro, ma accomunati da una grande esperienza di dolore: Primo Levi e Pavel A. Florenskij. Ricordando la sua esperienza in campo di concentramento, Primo Levi scriveva: «Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità» 16. Tirar su «un muro dritto» per dignità è espressione di gratuità, poiché dice che esiste negli altri, in sé stessi, nelle cose, persino nei «muri», una vocazione che va rispettata e servita, e mai asservita ai nostri interessi.

Anche questa è «arte della gratuità», come la definisce il grande teologo russo Pavel Florenskij nel gulag (campo di concentramento russo) delle isole Solovki, pochi mesi prima di morire fucilato: «Nella mia vita le cose sono andate sempre così. Nel momento stesso in cui riuscivo a possedere una certa materia, ero costretto ad abbandonarla per motivi indipendenti dalla mia volontà e dovevo iniziare ad affrontare un nuovo problema, sempre partendo dai suoi fondamenti, per spianare una strada che non sarei stato io a percorrere. Forse in questo si nasconde un significato profondo, dato che questa situazione si ripete sempre, nel corso di tutta la vita: l’arte della gratuità» 17. Spianare strade che non si percorreranno, o vivere con distacco e libertà il proprio lavoro, è una splendida definizione dell’arte della gratuità, l’arte più difficile da imparare, ma da cui dipende in buona misura, o forse del tutto, la piena realizzazione personale, quella che, utilizzando l’immagine classica, possiamo chiamare la fioritura di un’esistenza.

Questa gratuità è presente già nel titolo dell’enciclica, in quella caritas che nei primi tempi del cristianesimo veniva anche scritta charitas, per ricordare che il termine latino è sì la traduzione del greco agape (amore), ma include un rimando anche a un’altra parola greca: charis (grazia, gratuità). Così, visto che charitas è agape, è cioè l’amore tipico del cristianesimo, nel titolo troviamo anche implicitamente il concetto di reciprocità, poiché l’amore cristiano è sempre un «amatevi l’un l’altro» (Giovanni 13, 34), il comandamento nuovo di Gesù, espressione di una nuova fraternità (altro termine che ricorre nell’enciclica).

Le esperienze economiche improntate a questo tipo di gratuità — e, come abbiamo visto, l’enciclica ne menziona varie — sono allora importanti tentativi di valorizzare la funzione civilizzatrice e liberatrice del mercato, senza abdicare alla gratuità e alla sua natura più autentica. In tali esperienze si punta a costruire communitas senza potersi rifugiare nella immunizzazione garantita dalle gerarchie organizzative o dalla lettera del contratto.

3. Conclusione

Soltanto all’interno di questa visione della reciprocità e della gratuità crediamo che si possa cogliere l’idea di attività economica e di economia presente nella CV.
In primo luogo, se gratuità e dono sono ciò che abbiamo cercato di delineare finora, quando essi entrano in scena non è affatto necessario lasciare l’ambito economico ed entrare in quello sociale, come hanno sostenuto alcune recensioni critiche dell’enciclica 18, ancorate a una visione dicotomica di dono e mercato; infatti, se la dimensione tipica dell’umano è la sua apertura al dono-gratuità, e se l’economia è attività umana, allora un’economia autenticamente umana non può prescindere dalla gratuità.

Inoltre, in quest’ottica si comprende perché l’enciclica inviti a superare la dicotomia non profit-for profit, a favore di una idea di «economia civile», cioè a favore di quella tradizione di pensiero e di prassi che vede l’intero mercato e ogni forma di impresa come realtà umane a tutto tondo, chiamate per questo ad aprirsi al loro interno al dono-gratuità, se è vero che il contratto e il dono possono essere forme di reciprocità alleate per una società più civile, e non in conflitto tra di loro.
Se l’economia è attività umana, non è mai eticamente e antropologicamente neutrale: o costruisce rapporti di giustizia e di caritas, o li distrugge. Non esiste un’altra alternativa.

Da tale prospettiva il mercato è allora richiamato alla sua vocazione originaria, spesso tradita, di inclusione sociale, presente anche nella riflessione di Adam Smith e degli economisti classici, dove il contratto è sussidiario alla autentica promozione umana e al bene comune. Quando l’economia e la società perdono il rapporto con la gratuità, finiscono per smarrire il contatto con l’umano nella sua interezza e andranno perse le vocazioni — ogni vocazione è esperienza di gratuità —, comprese quelle artistiche, scientifiche e imprenditoriali, per ritrovarsi in un mondo nel quale, parafrasando Oscar Wilde 19, conosceremo con sempre maggiore precisione il prezzo di ogni cosa, ma il valore di nulla.

 

Note:

1 Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate (2009). Il testo è disponibile in .
2 Cfr Sorge B., «Caritas in veritate: una bussola per il XXI secolo», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (2009) 565-570.
3 Bernheim D. – Stark O., «Altruism Within the Family Reconsidered: Do Nice Guys Finish Last?», in American Economic Review, 5 (1988) 1034-1045.
4 Ivi, 1036. [Nostra trad.]
5 Sugden R., «Correspondence of Sentiments: An Explanation of the Pleasure of Social Interaction», in Bruni L. – Porta P. (edd.), Economics & Happiness. Framing the Analysis, Oxford University Press, Oxford 2005, 97. [Nostra trad.]
6 Cfr Kolm S.-C., Reciprocity. An Economics of Social Relations, Oxford University Press, Oxford 2008.
7 Si tratta di una serie di teorie che puntano a sviluppare una concezione della razionalità in cui l’agente si percepisce non come individuo ma come membro di un gruppo, e quindi valuta le alternative sulla base delle conseguenze per il gruppo, inquadrando la propria azione come parte di un agire collettivo. [N.d.R.]
8 Si pensi ad esempio ai filosofi Elizabeth S. Anderson e Amitai Etzioni.
9 Cfr Bruni L., L’ethos del mercato. Una introduzione ai fondamenti antropologici e relazionali dell’economia,Bruno Mondandori, Milano 2010.
10 Cfr, ad esempio, Pianigiani O., Vocabolario etimologico della lingua italiana, in .
11 Con il termine «commercio equo e solidale» si definisce una modalità di relazione commerciale tra i produttori del Sud del mondo e i consumatori del Nord alternativa a quella tradizionale, in cui trova spazio la considerazione non solo della natura del prodotto, ma anche del processo produttivo e distributivo, in particolare in relazione al rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori, agli effetti sul tessuto sociale e alla tutela dell’ambiente; cfr Becchetti L., «Commercio equo e solidale», in Aggiornamenti Sociali, 1 (2004) 65-68.[N.d.R.]
12 Si intende l’insieme di iniziative volte a rendere possibile l’accesso al credito a persone che ne restano escluse perché non possono offrire garanzie patrimoniali, ma che, ricevendo ugualmente fiducia, si dimostrano in grado di dar vita ad azioni economiche sufficientemente solide da restituire il prestito e permettere un miglioramento del livello di vita. Cfr Maggio F., «Finanza etica», in Aggiornamenti Sociali, 1 (2003) 70-73;Reggiani T., «Premio Nobel al microcredito», in Aggiornamenti Sociali, 12 (2006) 823-833. [N.d.R.]
13 Si tratta di una particolare esperienza imprenditoriale ispirata da Chiara Lubich e legata al Movimento dei Focolari: le imprese coinvolte, che hanno forti legami le une con le altre, operano sul mercato ma, a differenza delle imprese «normali», destinano gli utili non alla remunerazione del capitale, ma alla comunione, indirizzandoli a tre scopi: aiutare le persone in difficoltà (creando nuovi posti di lavoro e sovvenendo ai bisogni di prima necessità), diffondere la «cultura del dare» e dell’amore, sviluppare l’impresa. Cfr e Ferrucci A., «Il progetto di Economia di Comunione», in Aggiornamenti Sociali, 4 (2002) 324-332. [N.d.R.]
14 Cfr Bruni L., Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Bruno Mondadori,Milano 2006. Per una breve presentazione del volume, cfr Foglizzo P., «Mercato e relazioni: un’economia plurale», in Aggiornamenti Sociali, 7-8 (2007) 553-555.
15 La polisemia e possibile ambiguità della categoria del dono è da tempo oggetto di studio delle scienze umani e sociali. A riguardo, cfr Gasparini G., «Il dono: tra economia e società», in Aggiornamenti Sociali, 3 (2004) 205-213; Costa G., «Donare, ovvero il rischio della relazione», in Aggiornamenti Sociali, 4 (2009) 307-309. [N.d.R.]

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