I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 14/04/2024
Qual è “la fondazione morale più adeguata per una società democratica”. Questo è il quesito al quale John Rawls cerca di rispondere nella sua Teoria della Giustizia. Lo fa proponendo due principi basilari che ogni ordinamento politico e socio-economico dovrebbe rispettare: il “principio di libertà”, sul quale ci siamo soffermati a lungo nel Mind the Economy della settimana scorsa, e il “principio di differenza” su cui vorrei concentrarmi qui ora. La “struttura di base” della società è composta, secondo Rawls, da tutte quelle istituzioni e insiemi di regole che governano la vita degli individui e nell’ambito di queste istituzioni possiamo distinguere quelle che presiedono all’ordine politico e giuridico e le istituzioni di natura sociale ed economica, come la famiglia, il mercato, la proprietà.
Mentre l’ordine politico è sottoposto al “principio di libertà”, quello sociale ed economico è regolato invece dal “principio di differenza”. A proposito di questo secondo principio il filosofo belga Philippe Van Parijs scrive nel suo capitolo della Cambridge Companion to Rawls che «Pochi elementi della filosofia politica di John Rawls hanno segnato un epoca quanto quello che egli, un po’ stranamente, chiamò il “principio di differenza”. Nessuno altro aspetto della sua teoria ha esercitato un’influenza così grande al di fuori della cerchia dei filosofi accademici e nessun altro elemento ha dato luogo a tanti malintesi o generato così accese controversie».
Il “principio di differenza”
Nella sua prima formulazione che troviamo nel paragrafo 46 di Una Teoria della Giustizia, il “principio di differenza” viene enunciato in questo modo: «Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio di giusto risparmio, e collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità». Questa formulazione subisce negli anni varie rielaborazioni fino a pervenire nella sua versione più recente a questa forma: «La disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società» (Giustizia come equità. Una riformulazione. Feltrinelli, 2002).
L’enunciato come si vede è diviso in due parti, la prima riguarda l’accesso a eque opportunità e la seconda, invece, definisce il “principio di differenza” vero e proprio. Le prescrizioni associate alle due parti sono soggette ad un ordinamento lessicografico; ciò significa che ci si dovrebbe occupare della natura delle diseguaglianze solo dopo che l’uguaglianza delle opportunità viene garantita a tutti i cittadini.
Ma cosa prevede, nel concreto, il “principio di differenza”?
Ci dice che in una “struttura di base” nella quale si generano diseguaglianze socioeconomiche tali disuguaglianze devono favorire quanto più è possibile coloro che occupano la posizione socioeconomica più bassa. Il principio è soddisfatto, cioè, quando non è possibile pensare a ordinamenti istituzionali alternativi a quello esistente che siano capaci di far migliorare la posizione socioeconomica dei più svantaggiati. Se al contrario questo dovesse essere possibile, allora, la “struttura di base” attuale violerebbe il secondo principio di giustizia. Una società giusta, potremmo dire, facendo riferimento al principio di maximin di cui abbiamo parlato qualche settimana fa, è una società che genera la migliore condizione tra tutte le peggiori situazioni possibili. Nel quadro della teoria rawlsiana la posizione socioeconomica è determinata dal modo in cui vengono distribuiti i tre beni sociali primari: i poteri e le prerogative associati alle posizioni professionali, il reddito e più in generale la ricchezza e, infine, il rispetto di sé. Su questi beni e sul modo in cui questi sono distribuiti a chi si trova in situazione di svantaggio occorre concentrare le analisi per verificare come e quanto i diversi assetti istituzionali soddisfano il principio di differenza.
L’obiettivo di Rawls
È necessario ricordare che attraverso la sua teoria Rawls cerca di dimostrare che soggetti liberi e razionali negozierebbero nella “posizione originale” e raggiungerebbero un accordo per disegnare le loro istituzioni coerentemente con i due principi di giustizia. Ma perché, dunque, i cittadini dovrebbero accordarsi per l’adozione del principio di differenza come strumento di valutazione dei diversi assetti socioeconomici? La ragione è che dietro il “velo di ignoranza” i cittadini non conoscono quale posizione occuperanno nella costituenda società. Potrebbero finire per occupare quella migliore ma anche quella peggiore, oltre che qualunque altra posizione intermedia. È razionale, quindi, visto il rischio concreto di finire per appartenere alla quota più svantaggiata della popolazione, minimizzare il massimo danno, adottare, cioè, un principio di valutazione che, nel peggiore dei casi, darà preminenza proprio alla tutela degli interessi di chi si trova più svantaggiato.
Il “principio di differenza”superiore ad altri principi alternativi
Una seconda ragione che spingerebbe i cittadini a convergere verso un accordo sul “principio di differenza” è che questo, comparativamente, si dimostra superiore ad altri principi alternativi, per esempio al principio utilitaristico della massimizzazione dell’utilità media. Questa superiorità si manifesta, secondo Rawls, sotto il profilo della chiarezza, della trasparenza e della sua concreta applicabilità. La felicità, il benessere o l’utilità, qualunque variante si scelta di considerare, sono concetti piuttosto complessi da misurare oltre che da confrontare. Se pure dovesse essere possibile affermare con certezza che il soggetto A è più felice del soggetto B, sarebbe impossibile dire di quanto. Quanto A è più felice di B. Un dato questo necessario per poter decidere fino a che punto saremmo disposti a tollerare una riduzione di felicità per A se questa dovesse produrre un incremento per B? L’impossibilità o la estrema difficoltà di rispondere anche solo a domande apparentemente semplici come queste rende il principio utilitaristico poco chiaro, trasparente e di difficile applicabilità concreta. In questo senso il principio rawlsiano è più immediato ed economico, visto che si fonda su un indice oggettivo dei beni primari ed ha bisogno di informazioni solo sul sottoinsieme dei cittadini più svantaggiati. Queste virtù del “principio di differenza” hanno implicazioni importanti sia per la sua utilità concreta sia per la possibilità di ridurre il conflitto che invece sorgere molto più frequentemente tra esponenti di posizioni differenti nel caso in cui si utilizzasse un criterio più vago e meno trasparente.
La stabilità delle istituzioni
C’è anche una seconda considerazione che assume oggi un peso niente affatto trascurabile; si tratta della questione della stabilità delle istituzioni. Lo sottolinea il filosofo tedesco Thomas Pogge nel suo John Rawls: His Life and Theory of Justice (Oxford University Press, 2007). «La fedeltà morale (alle istituzioni) – scrive Pogge - non deve essere eccessivamente impegnativa dal punto di vista psicologico. Coloro che si trovano nelle posizioni socioeconomiche più basse troveranno spesso molto difficile dare un sostegno volontario alle istituzioni socioeconomiche che producono posizioni così basse (…) L’apatia e la slealtà sono tanto più probabili tra i cittadini quanto più sono svantaggiati». Ma perché allora la questione dovrebbe riguardare tutti i cittadini anche coloro che non sono per niente svantaggiati? «Poiché l’apatia e la slealtà di alcuni – spiega Pogge - «vanno contro gli interessi di tutti, tutti hanno interesse a moderare lo svantaggio».
Ma non sarebbe bastato, allora, che Rawls proponesse direttamente un principio di uguale distribuzione dei beni primari? In che senso possiamo affermare che una società dove regnano anche forti disuguaglianze può essere considerata giusta? Le ragioni per tollerare una certa dose di diseguaglianza sono almeno due e rientrano entrambe nelle classiche argomentazioni liberali a favore dell’economia di mercato.
La prima questione ha a che fare con gli incentivi
Il gioco del mercato non è un gioco a somma zero. Non si tratta di distribuire un ammontare fisso di risorse. Si tratta piuttosto di far crescere quelle risorse attraverso l’ingegno, la ricerca e lo sviluppo di nuovi beni e servizi. Il problema è quello di imparare a cucinare torte più grandi, non tanto quello di vincere la lotta per chi deve mangiarsi la fetta più grande. A causa di molteplici fattori la capacità di far crescere la torta non è distribuita in maniera uguale tra tutti i cittadini. Alcuni sono più talentuosi, altri più perseveranti, altri ancora più visionari, altri, semplicemente, più fortunati. Il fatto che questi si trovino in una condizione di vantaggio, in termini di distribuzione di beni primari, rispetto ad altri, rappresenta un incentivo a continuare nella loro opera di innovazione e scoperta che alla fine produrrà un vantaggio di tutti: torte più grandi, fette più grandi per tutti anche per quelli che prima mangiavano, tra tutti, le fette più piccole. Tali differenze, scrive Rawls, «agiscono come incentivi affinché il processo economico sia più efficiente, l’innovazione proceda a un ritmo più rapido».
L’“efficienza allocativa”
C’è anche un secondo aspetto. Quello legato alla cosiddetta “efficienza allocativa”. In un sistema di mercato efficiente, infatti, non basta che gli innovatori abbiano la ragionevole certezza di poter guadagnare dal loro impegno e dai loro sforzi; è necessario anche che il mercato espella coloro che non sono capaci di utilizzare le risorse in maniera efficiente per consentire che tali risorse vengano attribuite – “allocate” appunto – a chi è più capace di farle rendere al meglio.
La conclusione di Rawls è dunque che anche sistemi caratterizzati da una certa tolleranza verso le disuguaglianze sono maggiormente in grado di tutelari gli interessi dei più svantaggiati di quanto lo sarebbero sistemi puramente egualitari, a patto che i primi si pongano l’obiettivo esplicito, scrive ancora Rawls, di «migliorare le aspettative dei membri meno avvantaggiati della società». Su questo punto Philippe Van Parijs sottolinea un aspetto interessante. Da quanto detto fin qui sembrerebbe che la tolleranza per la disuguaglianza, per quanto ampia, si fonda sulla possibilità che si verifichi qualche miglioramento, per quanto piccolo, a favore dei più svantaggiati. Questa caratterizzazione descriverebbe Rawls come molto più disposto ad accettare forti disuguaglianze di quanto non sia in realtà. In una delle ultime formulazioni del “principio di differenza” che troviamo in Una Teoria della Giustizia, infatti, Rawls parla di «disuguaglianze sociali ed economiche che devono essere (…) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati». In Giustizia come equità, analogamente usa l’espressione “il massimo beneficio”. Questa formulazione mette in chiaro il fatto che il passaggio da un assetto istituzionale ad un altro potrà essere considerato coerente con il secondo principio non tanto se nel secondo possiamo osservare un qualche miglioramento della condizione dei più svantaggiati, ma se quel miglioramento rappresenta il massimo miglioramento tra tutti quelli possibili.
Il ruolo dell’istruzione
Discuteremo più avanti quali forme concrete potrebbe assumere una società ispirata dai principi rawlsiani di libertà e differenze. Vorrei concludere qui con un breve cenno al ruolo dell’istruzione. In Giustizia come Equità Rawls distingue cinque tipi di sistemi sociali, «ciascuno con le sue istituzioni politiche, economiche e sociali». Il primo è il capitalismo liberista, poi il capitalismo assistenziale (welfare state capitalism), il socialismo di stato con economia pianificata, la democrazia proprietaria e, per finire, il socialismo liberale.
Egli si concentra, in particolare, sul confronto tra capitalismo assistenziale e democrazia proprietaria, regimi che, più degli altri potrebbero essere coerenti con i principi rawlsiani. Entrambi i tipi di regime prevedono ampie libertà politiche e la proprietà privata dei mezzi di produzione. In un capitalismo del welfare state, tuttavia, il potere economico e quello politico sono concentrati nelle poche mani di una piccola élite che domina il processo politico. In una democrazia proprietaria, sostiene Rawls, la distribuzione del potere e della ricchezza è molto più ampia e democratica.
C’è anche un’altra differenza, forse ancora più interessante, e cioè il fatto che, come fa notare ancora Pogge, «il capitalismo del welfare state tende a generare una sottoclasse permanente di destinatari dell’assistenza statale che, anche se ricevono benefici adeguati, sono esclusi da qualsiasi ruolo reale nella vita sociale ed economica della loro società». In una democrazia proprietaria questo problema è mitigato. Scrive ancora Pogge: «Invece di alleviare la povertà più grave – a posteriori, per così dire – attraverso l’assistenza pubblica, la sua concezione impedisce l’emergere stesso di una sottoclasse bisognosa di sussidi pubblici. L’obiettivo è consentire a tutti i cittadini di soddisfare i propri bisogni socioeconomici con il proprio reddito da lavoro».
È qui che la scuola e il sistema dell’istruzione tutto entra in gioco. È necessario che tutti i cittadini ricevano in maniera compiuta tutti gli elementi culturali e educativi indispensabili per «poter partecipare, pienamente e come uguali, alla vita economica e sociale della loro società». Ma questo non è ancora sufficiente. Potremo dire che il sistema dell’istruzione avrà assolto davvero al suo compito essenziale quando non solo i cittadini avranno gli elementi culturali per poter partecipare ma anche quando decideranno di partecipare effettivamente alla vita pubblica, sociale e politica perché sono sicuri del fatto che verranno considerati e trattati come uguali a tutti gli altri cittadino.
Credits foto: © Diego Sarà