I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 01/01/2023
Una delle proposte-bandiera dell'ultima campagna elettorale è certamente quella del mantenimento, della riformulazione o dell'abolizione del reddito di cittadinanza. Forze politiche contrapposte hanno issato questa bandiera in cima alle loro piattaforme di proposte e sappiamo com'è andata a finire.
Giovedì scorso è stata definitivamente approvata col voto del Senato la prima manovra economica del governo Meloni dalla quale il reddito di cittadinanza uscirà certamente depotenziato, non sappiamo ancora bene né come né di quanto, ma certamente quella bandiera dovrà definitivamente essere piantata per rispettare la promessa fatta all'elettorato di centro-destra.
La povertà nella società italiana
Certamente l'introduzione del reddito di cittadinanza e ancora prima quelle del REI, il reddito di inclusione da parte del governo Renzi, hanno costituito un momento importante nella storia recente del nostro Welfare; il tema della povertà, infatti, era ormai uscito da tempo dai radar della politica economica e quasi non se ne parlava più se non in corrispondenza dell'uscita dei rapporti Istat o Caritas. Eppure, i dati diventavano anno dopo anno sempre più drammatici. Quindi l'aver riportato questo tema al centro del dibattito politico è stato certamente un merito, così come è stato un grande merito aver dato supporto economico in anni così difficili come quelli che abbiamo recentemente vissuto a milioni di persone che altrimenti avrebbero avuto certamente grandi difficoltà a uscire da una condizione di grave indigenza.
Certo il reddito di cittadinanza era stato pensato come uno strumento complesso non solo di supporto al reddito ma anche di inclusione lavorativa e su questo lato, per ragioni che non possiamo analizzare qui, il provvedimento è stato quasi un totale “flop”. Una riforma, dunque, anche solo di questa parte della misura era indispensabile.
Il peso della retorica elettorale
La retorica elettoralistica di quelli che più fortemente si sono opposti al reddito di cittadinanza ha assunto toni differenti, quelli di una riforma pensata contro gli innumerevoli fannulloni che, soprattutto al Sud, preferiscono stare sul divano che andare a cercarsi un lavoro, contro i cosiddetti “occupabili”.
l di là della flessione semantica del termine “occupabile” questo frame retorico nel quale la proposta della destra è stata inserita, sottovaluta un problema non da poco. Gli economisti lo chiamano endowment effect, “effetto dotazione”. L'utilità che attribuiamo ad un certo bene dovrebbe essere indipendente, così ci dice la teoria microeonomica, dal fatto di possederlo oppure no. Questo significa che ci sarà un certo prezzo al di sotto del quale non saremo disposti a vendere quel bene se lo possediamo e un certo prezzo al di sopra del quale non saremo disposti ad acquistare quello stesso bene se, invece, non lo possediamo. E quei due prezzi saranno naturalmente uguali. La mia disponibilità ad accettare una somma per vendere un certo bene o a pagarla per acquistare lo stesso bene devono essere uguali. Ma le cose non stanno in questo modo perché una volta che entriamo in possesso di un certo bene, il valore che gli attribuiamo cresce immediatamente e, per questo, saremmo disposti a liberarcene solo ad un prezzo molto più alto di quello che siamo stati disposti a pagare per acquistarlo.
La paura della perdita dei beni acquisiti
I due premi Nobel Daniel Kahneman e Richard Thaler che assieme a Jack Knetsch, per primi, hanno analizzato sperimentalmente il fenomeno ne fanno risalire la causa alla nostra innata “avversione alle perdite”. Questo fenomeno è legato al fatto che, psicologicamente, la perdita di una certa somma vale in termini di benessere circa due volte e mezza la vincita della stessa somma. Siamo cioè più sensibili alle perdite che non ai guadagni. Per questo i giocatori d'azzardo anche se sono in rosso continuano a giocare, per evitare di realizzare le perdite, così come quegli investitori che si tengono in portafoglio sempre troppo a lungo titoli che continuano a vedere ridursi il loro valore. Se applicato al possesso di un certo bene, questa avversione alle perdite determina l'effetto dotazione.
Il marketing sfrutta da sempre questa nostra vulnerabilità. Pensiamo alle strategie “freemium”: aziende che ci offrono i loro servizi gratuitamente, almeno all'inizio, per poi proporci di passare all'abbonamento “premium”. Dopo aver sperimentato il servizio, pur di non perderlo siamo disposti a pagare molto di più di quello che saremmo stati disposti a pagare se non avessimo inizialmente sperimentato quello stesso servizio. Il messaggio fondamentale è che avere accesso ad un servizio e vederselo togliere è molto più doloroso che non averlo mai avuto. Togliere il reddito di cittadinanza a chi ne ha goduto questi anni, senza un adeguato accompagnamento o la proposta di un'alternativa ancora migliore, sarà estremamente “doloroso”.
Il problema non è la voglia di lavorare, ma la creazione di lavoro dignitoso
Come favorire questa transizione dunque? Partendo dal presupposto che, nei grandi numeri, il problema non è la voglia di lavorare. Tutti quelli che possono veramente, vogliono lavorare ed essere posti nelle condizioni di poterlo fare per guadagnare non solo un salario ma anche e soprattutto autostima e rispetto di sé. Perché «il lavoro può essere importante per il benessere individuale per ragioni che esulano dal suo ruolo di fonte di reddito», come affermano Reshmaan Hussam e i suoi colleghi autori di un importante studio pubblicato il mese scorso sull'American Economic Review.
Si tratta dunque di rendere davvero occupabili quelli che oggi lo sono solo per definizione terminologica e di facilitare la creazione di posti di lavoro degni, per salario, condizioni di sicurezza e funzione sociale. Si tratta di una questione di giustizia nella sua accezione “contributiva”. Se da una parte lo Stato pretende da ogni cittadino impegno nella produzione e nella redistribuzione di beni e servizi, dall'altra dovrebbe dare a ciascuno, nelle parole di Michael Sandel «un'opportunità per ottenere il riconoscimento e la stima sociale, che va di pari passo con la produzione di ciò di cui gli altri necessitano e apprezzano».
Ma la prima cosa da fare, in assoluto, è quella di mandare in cantina questa retorica punitiva figlia di un malissimo inteso concetto di meritocrazia. Un concetto così male inteso che alla prova dei fatti rischia di trasformarsi in nient'altro che una legittimazione morale dei molti privilegi esistenti e delle crescenti disuguaglianza. Questo certamente non sarebbe un cattivo augurio per questo nuovo anno che oggi cominciamo insieme.