Un modo alternativo di fare impresa nell’epoca della crisi della globalizzazione promosso dai Focolarini dopo il crollo del muro di Berlino e di fronte al dramma delle favelas
di Iacopo Scaramuzzi
pubblicato su La Stampa - Vatican Insider il 2/02/2017
Nata un quarto di secolo fa, davanti alla contraddizione delle favelas che già allora circondavano i grattacieli brasiliani, quando il crollo del muro di Berlino aveva dischiuso una fiducia senza limiti nel mercato, l’esperienza della «economia di comunione» continua a rappresentare una via alternativa di fare impresa anche adesso che, nell’era di Donald Trump, la globalizzazione non sembra più scontata.
E oltre mille imprenditori di 51 paesi diversi dei cinque continenti verranno ricevuti sabato prossimo dal Papa per raccontargli questo esperimento economico lanciato nel 1991 dalla fondatrice dei Focolarini.
«L’idea iniziale, la scintilla fu quando arrivando in aereo nella città di San Paolo in Brasile Chiara Lubich vide i grattacieli del centro circondati dalle favelas, quella che il cardinale Paulo Evaristo Arns definiva la “corona di spine” della città», ha raccontato oggi in un incontro con la stampa l’economista Luigino Bruni, coordinatore internazionale della Economia di comunione e professore alla Lumsa e all’Istituto Universitario Sophia. Dalla consapevolezza di questa iniquità nacque l’invito che la fondatrice dei Focolarini indirizzò ad un primo gruppo di imprenditori per sviluppare «una prassi ed una cultura economica improntata alla comunione, alla gratuità ed alla reciprocità» che, in particolare, prevede la destinazione di una fetta degli utili alla riduzione della povertà e alla diffusione di una «cultura del dare». Erano gli anni immediatamente successivi alla fine dell’Unione Sovietica e in quel frangente «c’era una grande fiducia nel mercato», ha ricordato Luigino Bruni.
«Oggi lo scenario è diverso e la globalizzazione sembra in crisi non solo per quello che accade negli Stati Uniti, o in Ucraina o in Polonia, ma è una certa fase del mondo che sembra essere entrata in una fase di crisi, qualcosa della promessa di inclusione non ha funzionato». La «mano invisibile» del libero mercato teorizzata da Adam Smith «non convince più» e servono «nuovi miti fondativi del mercato e del mondo» tanto più che anche nel mercato «c’è una nuova domanda di comunità», come dimostra il successo della sharing economy, c’è una «domanda di senso e addirittura di sacro» testimoniato dal tentativo delle imprese di coinvolgere i lavoratori quasi come in passato facevano gli ordini religiosi, c’è bisogno di «imprenditori innovatori» in un mondo dove abbondano invece i manager, c’è «domanda di autenticità» ma il mercato non sembra prevedere il suo pendant naturale, la «gratuità».
Dalla Cina al Congo, dal Brasile alla Nuova Zelanda, dal Portogallo alla Croazia, dagli Stati Uniti al Messico, gli oltre mille imprenditori che incontreranno sabato il Papa non seguono un modello unico di fare banca o credito. «Il nostro è un laboratorio poco ideologico», ha spiegato ancora Bruni, «non si fa molta teoria, si sperimenta in modo molto laico». Tra le varie esperienze emerge però un filo rosso, una sorta di responsabilità sociale delle imprese in chiave comunitaria, che accomuna e connette i diversi attori coinvolti nell’Economia di comunione e riuniti in questi giorni (1-5 febbraio) presso la sede del Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, poco fuori Roma, per definire piste e progetti per il periodo 2018-2020.
Alcuni di loro erano presenti all’incontro stampa di questo pomeriggio ed hanno raccontato la loro esperienza, dalla banca rurale Kabayan promossa nelle Filippine da Teresa Ganzon col marito (un terzo dei servizi è destinato al microcredito che serve 12mila famiglie ovvero l’85% dei clienti) alla impresa di consulenza ambientale di John Mundell negli Stati Uniti, dalla associazione per l’economia di comunione nell’Africa centrale portata avanti da Steve William Azeumo in Camerun e dedicata principalmente a giovani imprenditori alla associazione brasiliana presieduta dalla avvocatessa Maria Helena Ferreira Fonseca, a sua volta aiutata da altri imprenditori dell’Economia di comunione a studiare giurisprudenza quando era giovane e la sua famiglia era in difficoltà economiche, fino alla società Bertola Srl nel Cuneese, specializzata in ramatura, cromatura e nichelatura di componenti per moto e auto, sei milioni di fatturato l’anno scorso, 25 dipendenti tra i quali immigrati di religione islamica giunti in Italia dieci anni fa e oggi operai specializzati.
«Non siamo il paradiso in terra», ha precisato Luigino Bruni, «abbiamo anche le nostre difficoltà. Con la crisi economica mondiale molte aziende hanno chiuso, altre sono entrate nel progetto. Le relazioni nate a causa della rete dell’Economia di comunione, però, ha fatto sì che di fronte allo tsunami della crisi globale le realtà con radici più profonde abbiano resistito meglio». E questo diranno al Papa sabato prossimo: «Siamo in sintonia totale con Francesco – ha spiegato Bruni – ma oltre ai suoi “no” che condividiamo, no ad un’economia che uccide, no a un’economia che esclude, no a un’economia che inquina, vorremmo proporgli un “sì”, sì ad un’economia di comunione. Il Papa, del resto, si chiama Francesco, e i francescani crearono, anche per contrastare il fenomeno dell’usura, le prima banche popolari d’Europa. Già il nome di questo Papa è tutto un programma».