I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 25/08/2024
Friedrich von Hayek è per molti “il” filosofo della libertà. Non solo filosofo, a dire il vero, ma anche l’economista e il giurista della libertà. Quella libertà che nasce come diritto naturale e diventa bene necessario quando gli esseri umani iniziano a vivere in gruppi sempre più numerosi. Condizione necessarie per poter sfruttare i benefici della divisione del lavoro e dello scambio.
La libertà trova la sua ragione d’essere non solo nella legge naturale, sostiene Hayek, ma ancor più nella fallibilità e nella parzialità della nostra conoscenza. Solo grazie alla libertà di perseguire i nostri scopi individuali, infatti, può agire la “catallassi”, “Un processo impersonale – scrive Hayek - che produce una soddisfazione dei desideri umani maggiore di quella che si possa ottenere da qualsiasi arrangiamento deliberato” (Legge, Legislazione e Libertà. Il Saggiatore, 1986, p. 262). Se questo è vero, allora, qualsiasi “arrangiamento deliberato” che miri a limitare quella libertà o anche solo a indirizzare le scelte individuali è da ritenersi illegittimo, da evitare, prevenire e condannare. Perché ogni “arrangiamento deliberato” non è altro che un piano d’azione progettato e diretto da qualcuno o qualcosa – le élites, lo Stato, il Governo – che opera necessariamente contro la volontà dei singoli e interferendo con il loro “dominio individuale protetto”. Neanche le migliori intenzioni possono giustificare tale intromissione nella sfera delle libertà individuale. Neanche il desiderio di perseguire un ideale di “giustizia sociale”. Un ideale che, del resto, Hayek ritiene essere un illusorio “miraggio”, un’idea priva di significato, inutile e persino dannosa.
Quest’ultimo è forse il punto che maggiormente distingue il pensiero del filosofo austriaco da quello di John Rawls, altro gigante della filosofia politica del ‘900. Per Rawls, infatti, come ci ricorda Sebastiano Maffettone nella sua introduzione al pensiero del filosofo americano “Il compito teoretico principale di Una Teoria della Giustizia era quello di formulare una teoria della giustizia sociale” (Introduzione a Rawls. Laterza, 2010, p. 10), una teoria capace di individuare, cioè, quell’insieme di principi che determinano – come scrive lo stesso Rawls “la corretta distribuzione dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale”. È tema della giustizia sociale è dunque il centro intorno al quale ruota gran parte della sua riflessione mentre. Per Hayek, invece, questa idea è, come abbiamo visto nel Mind the Economy della settimana scorsa, qualcosa del tutto privo di significato. Due posizioni inconciliabili dunque? In realtà le due prospettive sono meno distanti di quanto possa sembrare a prima vista. Lo afferma, insospettabilmente, lo stesso Hayek quando nella prefazione all’edizione inglese in volume unico di Legge, Legislazione e Libertà, scrive riferendosi a Rawls, “Le differenze tra noi sembrano essere più verbali che sostanziali” (Routledge and Kegan Paul, 1982, p. xx).
Iniziamo esplicitandole queste differenze, allora, con riferimento innanzitutto a ciò che David Hume chiama “le circostanze di giustizia”. Si tratta di quelle condizioni che, descrivendo il mondo e le caratteristiche tipiche degli esseri umani, danno conto del nostro desiderio di giustizia. Secondo Rawls, che in questo segue Hume, esistono due “circostanze” principali, una oggettiva e una soggettiva. Quella oggettiva si riferisce alla scarsità delle risorse a nostra disposizione, una scarsità che non può non generare dei conflitti nel momento in cui ognuno cerca di accaparrarsi la maggiore quantità possibile di risorse. La “circostanza” soggettiva, invece, ha a che fare con il disaccordo che esiste tra gli individui circa i fini che collettivamente dovremmo perseguire. L’esistenza di queste due circostanze rende necessaria una riflessione sulle regole che dovremmo adottare per mitigare i conflitti che emergono, da una parte, a causa della scarsità delle risorse e, dall’altra, a seguito del disaccordo sulla finalità da perseguire come società. Questa è la ragione che spiega perché abbiamo bisogno di un’idea di giustizia sociale.
La questione per Hayek è un po’ più complessa. Benché, infatti, egli condivida la circostanza oggettiva della giustizia e, cioè, la limitatezza delle risorse a disposizione, per quanto riguarda la circostanza soggettiva la posizione del filosofo austriaco è molto differente da quella di Rawls. Egli, innanzitutto, è convinto che anche la seconda circostanza abbia carattere oggettivo, che derivi, cioè, non tanto da contingenze storiche o da diversità culturali, perché la seconda circostanza di giustizia ha, per Hayek, una radice epistemologica. È legata, cioè, al fatto che ognuno di noi possiede solo una piccola parte di tutta la conoscenza necessaria affinché collettivamente sia possibile prendere decisioni razionali. “La possibilità di avere un ordine giusto – scrive – dipende da tale necessaria limitazione della nostra conoscenza fattuale e, pertanto, tutti quei costruttivisti che argomentano abitualmente partendo dall’assunzione di onniscienza non possono giungere a intravedere la natura della giustizia” (p. 20). Anche in un mondo popolato da altruisti capaci di mettersi d’accordo su obiettivi comuni e condivisi, avremmo comunque necessità di un criterio decisionale giusto per decidere come allocare le risorse limitate. Ma come scrive Hayek in Il Miraggio della Giustizia Sociale non c’è “alcuna possibilità per l’individuo di sapere ciò che dovrebbe fare per garantire la giusta remunerazione ai suoi simili” (p. 272). Per Hayek, dunque, il nostro bisogno di giustizia non nasce, come per Rawls, a causa del disaccordo rispetto agli scopi della vita ma in virtù della nostra ignoranza. La giustizia è, quindi, il modo attraverso il quale la conoscenza rilevante può essere coordinata e può dar vita all’ordine spontaneo. Come ci ricorda Paul Kelly, nella sua prefazione a Law, Legislation and Liberty, “La domanda fondamentale verso cui ci orienta la prospettiva di Hayek non è: come dovrebbero essere organizzati i benefici e gli oneri in un mondo di risorse limitate e di limitata benevolenza o disaccordo endemico? Piuttosto, è quali istituzioni di giustizia consentono di scoprire come dovrebbero essere distribuiti i benefici e gli oneri in condizioni di risorse e conoscenza limitate?” (Routledge, 2013, p. xxvii).
Oltre questa prima differenza che potremmo definire metodologica, Hayek e Rawls divergono nettamente per quanto riguarda il ruolo del mercato e dell’intervento pubblico. Per il filosofo austriaco il meccanismo dei prezzi deve poter operare sia in funzione allocativa che distributiva. Ciò significa che non solo va lasciato al libero funzionamento del mercato il compito di indirizzare le risorse produttive, il capitale e il lavoro, verso quei settori che in base ai prezzi vengono di volta in volta ritenuti più remunerativi, ma anche il compito di distribuire tra tutti i partecipanti al gioco della produzione e dello scambio i benefici derivanti dall’attività economica. Rawls vede anch’egli di buon occhio la funzione allocativa del mercato ma è, altresì convinto, come scrive in Una Teoria della Giustizia, che “La distribuzione risultante da transazioni volontarie di mercato (anche nel caso in cui si verifichino tutte le condizioni ideali per l’efficienza concorrenziale) non è in genere, equa a meno che la distribuzione iniziale del reddito e della ricchezza così come la struttura del sistema dei mercati siano eque” e che, per questo, spetti allo Stato intervenire sulle istituzioni della struttura di base, per controbilanciare l’influenza di mercato sulla funzione distributiva.
Una terza importante area di disaccordo tra Rawls e Hayek riguarda l’interpretazione del il “principio di libertà”, il primo principio di giustizia rawlsiano. Come fa notare il politologo Lawrence Connin, “Se le libertà personali sono veramente sacrosante allora - coerentemente con la lettura hayekiana - tutti gli altri obiettivi finali (ad esempio, l’uguaglianza dei risultati) devono essere rifiutati [e] tutti i tentativi di regolamentare gli scambi di mercato, i diritti di proprietà o il diritto di successione, sono chiaramente proibiti” (“On DiQuattro, ‘Rawls and Left Criticism’. Political Theory 13, 1985, pp. 138-141). A questo andrebbe aggiunta l’ostilità di Hayek per ogni politica fiscale finalizzata alla redistribuzione e ogni altra forma di regolamentazione del mercato. Ma questo è ciò che veramente per Rawls prescrive il principio di libertà? In realtà no. Al contrario, infatti, per il filosofo americano il primo principio non solo permette le attività che Hayek vieterebbe in nome della libertà, ma addirittura obbliga lo Stato ad intervenire con la redistribuzione del reddito e perfino attraverso “il necessario aggiustamento dei diritti di proprietà”. E questo proprio per difendere la libertà. Troppa disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, infatti, genererebbe una concentrazione di potere ed un conseguente rischio per “l’equo valore della libertà politica e l’equa uguaglianza delle opportunità”, scrive Rawls. La libertà, dunque, non può essere contrapposta all’uguaglianza, ma è vista, piuttosto, come una sua particolare concretizzazione.
Eppure, nonostante queste marcate differenze tra il pensiero di Hayek e quello di Rawls, esistono tra i due delle inattese linee di convergenza. Entrambi i pensatori, del resto, si rifanno alla tradizione del liberalismo, anche se nella sua accezione classica per quanto riguarda il filosofo austriaco, e con accenti egualitari, invece, per l’americano. Questa strana prossimità tra Hayek e Rawls non è passata inosservata tra i commentatori ed ha suscitato diverse critiche dai differenti poli dello spettro politico. Da sinistra, si è sostenuto che se Hayek e Rawls hanno qualcosa a che spartire probabilmente c’è qualcosa di sbagliato in Rawls, come sostiene, per esempio, Connin. Dal fronte conservatore, invece, la stessa Ayn Rand, “lady liberty”, ha definito Hayek come “il nostro nemico più pernicioso”. Al centro, infine, non pochi hanno lavorato ad una sorta di “sintesi rawlsiana”. Andrew Lister nelle sue Oliver Smithies Lecture, per esempio, identifica quattro aree di convergenza nel pensiero dei due filosofi. Ne discuteremo qui due, lasciando le rimanenti al Mind the Economy della settimana prossima.
Il primo tema comune riguarda il rapporto tra merito e giustizia distributiva. Abbiamo già visto come la critica di Hayek all’idea di giustizia sociale è legata alla sua avversione al concetto di merito. Distribuzioni basate sul merito, infatti, genererebbero per Hayek situazioni di grande ingiustizia, caratterizzate dall’uguaglianza tra diseguali, per usare la nota espressione di Don Lorenzo Milani. Scrive Hayek al riguardo “La giustizia esige che le condizioni di vita determinate dall’autorità pubblica siano uguali per tutti. Ma l’uguaglianza di tali condizioni comporta di necessità la disuguaglianza dei risultati. Né l’egualitaria fornitura di particolari servizi pubblici, né il paritario trattamento dei nostri diversi soci di affari volontari garantiscono una ricompensa proporzionata al merito. Il compenso per il merito è compenso per l’obbedienza ai voleri altrui, non è compenso per i benefici che abbiamo procurato ad altri, facendo quanto ci pareva meglio” (La Società Libera, Rubettino, 2007). L’affinità con Rawls su questo punto è palese; anche il filosofo americano, infatti, nega che il merito possa essere considerato un principio fondamentale di giustizia. “Uno schema giusto – scrive - fa valere i titoli validi; soddisfa le aspettative legittime fondate sulle istituzioni sociali. Ma i titoli validi non sono né proporzionali ai meriti intrinseci, né dipendenti da essi. I principi di giustizia che regolano la struttura di base e specificano i doveri e gli obblighi degli individui non fanno menzione del merito morale, e le quote distributive non tendono minimamente a corrispondervi”.
Il secondo punto su cui Rawls e Hayek sembrano convergere riguarda la dimensione procedurale della giustizia. Occorre ricordare, preliminarmente, che entrambi considerano la questione della giustizia da riferirsi non tanto alle distribuzioni finali o alle azioni individuali quanto piuttosto alla natura delle istituzioni – la “struttura di base”, come la definisce Rawls e le “norme di condotta” hayekiane – e al modo in cui queste vincolano e orientano le scelte individuali. Le distribuzioni di beni e opportunità emergono come risultato delle scelte dei singoli che interagiscono all’interno di questi schemi di regole. Diverse regole favoriscono scelte differenti e generano, quindi, allocazioni differenti e se un insieme di regole determina a istituzioni giuste, tutte le possibili allocazioni finali che ne deriveranno saranno da considerare giuste. “La giustizia distributiva – scrive Lister - è simile al gioco d’azzardo; se la scommessa è stata fatta liberamente e in condizioni eque, il risultato sarà equo a prescindere da quale sia l’esito. Non si può prendere un insieme di beni distribuiti tra determinati individui e giudicarlo giusto o ingiusto indipendentemente dal sistema istituzionale da cui tale distribuzione è scaturita”. Questa lettura di Rawls teorico della giustizia procedurale può sembrare a prima vista piuttosto controintuitiva alla luce soprattutto del suo “principio di differenza” che ha, invece, certamente una natura spiccatamente distributiva. Ma non va dimenticato che i principi rawlsiani si applicano alle istituzioni e alle conseguenze che queste hanno sulle posizioni sociali che i singoli possono occupare e non sui singoli individui. Quando Rawls parla di “più svantaggiati”, cioè, non si riferisce ai singoli ma ad una posizione che questi possono occupare nella società. Questo aspetto ci riporta al tema del merito. Le persone, infatti, nascono con diverse dotazioni di talenti e nascono in famiglie che possono offrire a ciascuno opportunità differenti e il sistema di mercato nel quale interagiamo genera esiti differenti sulla base di molte condizioni che esulano dal controllo e dalla responsabilità dei singoli.
Questi elementi introducono nella vita di ciascuno di noi un’imprescindibile influenza legata alla fortuna e alla sorte. Per questo assisteremo a fallimenti immeritati così come a successi altrettanto immeritati. “L’entità del contributo di ciascuno – scrive Rawls al riguardo - dipende dalla domanda e dall’offerta. È certo che il merito morale di una persona non varia se ci sono molti con capacità simili, o molti che vogliono ciò che uno produce. Nessuno suppone che, quando le capacità di qualcuno sono meno richieste o si deteriorano (come nel caso dei cantanti), la sua dignità morale subisca un mutamento analogo. Tutto ciò è assolutamente ovvio, ed è stato riconosciuto da lungo tempo. Ciò riflette semplicemente il fatto (…) per cui uno dei punti fissi dei nostri giudizi morali è che nessuno merita la sua posizione nella distribuzione delle doti naturali, più di quanto non meriti la sua posizione di partenza nella società”. E siccome i benefici sociali sono benefici che derivano dalla cooperazione di ogni membro della società, nessuno ha il diritto di accaparrarsi quote maggiori di questi benefici solamente sulla base di una fortuna moralmente arbitraria, a meno che, ed è questo il significato profondo del “principio di differenza” questa disuguaglianza nella distribuzione dei benefici non faccia stare tutti meglio, in particolare, coloro che occupano una posizione sociale più svantaggiata. Nota ancora Lister che in questo senso il principio di differenza ha una natura ibrida. Infatti “Le distribuzioni tra gli individui sono giuste nella misura in cui risultano dall’interazione all’interno di istituzioni giuste, ma le istituzioni giuste sono definite in parte in termini di tendenza a produrre le giuste distribuzioni tra le posizioni sociali”.
Ad una analisi attenta, pur non negando le grandi differenze che distinguono il pensiero di Hayek da quello di Rawls, è possibile dunque riscontrare risposte simili a problemi comuni che i due filosofi hanno individuato e affrontato nella loro riflessione. Al di là dell’interesse puramente filologico questo esercizio di analisi delle concordanze può rivelarsi utile nel disinnescare le contrapposizioni ideologiche che sui vari campi rendono difficile un dialogo fecondo tra coloro che hanno in animo il valore fondamentale della libertà come antidoto all’arroganza ignorante del potere.
Credits foto: © Diego Sarà