I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 18/08/2024
“Legge, Legislazione e Libertà”, pubblicato in Italia nel 1986 è l’ultima importante opera dell’economista e filosofo austriaco Friedrich von Hayek. Rappresenta la summa del suo progetto intellettuale di fondazione del neoliberalismo che egli costruisce intorno alla difesa dell’ordine spontaneo del mercato - “la catallassi” - e contro l’interferenza del governo nella sfera della vita sociale ed economica dei singoli. Come abbiamo visto nel Mind the Economy dell’11 agosto le ragioni profonde che stanno alla base della posizione hayekiana sono innanzitutto di natura epistemologica. Hanno a che fare, cioè, con la fallibilità e l’incompletezza della conoscenza umana. Fallibilità e incompletezza che rendono velleitaria ogni ambizione di pianificazione centralizzata del funzionamento del sistema economico che nel concreto riguarda le scelte decentralizzate, libere e autonome di milioni di individui differenti che perseguono finalità differenti sulla base di frammenti di una conoscenza sparsa e diffusa. Quella conoscenza che sarebbe necessario ad ipotetico pianificatore centrale possedere in maniera unitaria e completa.
E’ il mercato, invece, il luogo nel quale, attraverso il processo di “catallassi”, quella conoscenza sparsa sfruttata in maniera ottimale e, attraverso il sistema dei prezzi, viene condivisa e organizzata per facilitare, attraverso l’emersione di un ordine spontaneo, il raggiungimento di obiettivi ottimali. In questo quadro, dunque, la giustizia attiene, per Hayek, alla natura delle regole di condotta che l’autorità centrale deve far rispettare affinché il mercato possa svolgere questa sua operazione di coordinamento. L’unica forma di interferenza legittima da parte del governo nella vita privata dei cittadini, quindi, è quella che deriva dall’obbligo di ogni individuo di rispettare queste regole di condotta che prevedono la tutela della libertà degli altri, della loro proprietà, dei termini dei contratti e di tutte le altre regole che presiedono al funzionamento dei mercati.
Interferenze illegittime e dannose
Ogni ulteriore forma di interferenza, con qualche piccola eccezione legata all’istruzione obbligatoria e alle assicurazioni dai rischi naturali e sociali, è da considerarsi illegittima. Tra queste interferenze troviamo anche le politiche redistributive. Tali politiche sono illegittime e dannose perché ispirate, secondo Hayek, da “una credenza quasi religiosa senza alcun contenuto”, niente più che una “formula vuota e priva di significato”. L’intero secondo volume di Legge, Legislazione e Libertà, significativamente intitolato Il Miraggio della Giustizia Sociale, è infatti dedicato a dimostrare l’inutilità e perfino la pericolosità di un obiettivo politico ed economico di questo tipo. “Mentre nel capitolo precedente - scrive Hayek - ho dovuto difendere la concezione della giustizia intesa come fondamento e limitazione di qualsiasi legge, voglio ora criticare l’abuso di questo termine, che minaccia di distruggere il concetto di legge come baluardo della libertà individuale” (1994, p. 262).
La difesa di Hayek è innanzitutto metodologica, e si fonda sulla cattiva scienza che starebbe a fondamento della pretesa stessa dell’esistenza di qualcosa di simile alla giustizia sociale. Questa, infatti, scrive ancora Hayek “fu vista come un attributo che dovevano possedere le ‘azioni’ della società o il ‘trattamento’ che gli individui o i gruppi subivano dalla stessa. Come fa generalmente un pensiero primitivo quando nota per la prima volta alcuni processi regolari, i risultati dell’ordine spontaneo del mercato sono stati interpretati come se fossero diretti da una mente razionale o come se i benefici o i danni particolari che persone diverse ne ricevevano fossero determinati da atti di volontà e potessero quindi essere guidati da regole morali (…) È un segno della nostra immaturità che non si siano ancora abbandonati questi concetti primitivi, e di pretendere ancora da un processo impersonale che produce una soddisfazione dei desideri umani maggiore di quella che si possa ottenere da qualsiasi arrangiamento deliberato, di conformarsi ai precetti morali che gli uomini hanno sviluppato come guida delle loro azioni individuali” (p. 262).
Il punto è semplice: non è possibile ascrivere agli esiti sociali derivanti dall’interazione di milioni di azioni congiunte di soggetti che cercano di perseguire il soddisfacimento dei loro bisogni individuali le stesse proprietà di giusto o sbagliato che si potrebbero ascrivere alle azioni dei singoli. Essendo l’ordine spontaneo il frutto non-intenzionale di tutte queste azioni individuali le sue conseguenze non possono essere valutate attraverso i principi morali che utilizziamo per valutare le conseguenze intenzionali delle singole scelte. Ma se non potendo valutare eticamente l’ordine di mercato non è neanche pensabile mettere in atto processi correttivi ispirati, per esempio, all’idea di giustizia sociale.
Giustizia sociale su quattro direttrici
Più nel dettaglio, la critica hayekiana all’idea di giustizia sociale si muove lungo quattro direttrici principali; le prime due riguardano la mancanza di significato del concetto stesso e la sua natura “atavica”, mentre gli altri due elementi di critica riguardano da una parte la fattibilità concreta delle politiche redistributive e, dall’altra, la loro incompatibilità con l’ordine di mercato. Andiamo per ordine. La prima questione è quella del significato stesso dell’idea di giustizia sociale. Hayek è perfettamente disposto a considerare giusta o ingiusta un’allocazione di risorse. Per esempio, una più ugualitaria o una che da di più a chi ha più necessità o a chi più merita, possono essere più giuste di altre possibili allocazioni alternative. Questo però può essere vero solamente se tali allocazione fossero il risultato di una scelta deliberata di un qualche agente identificabile, un pianificatore, un dittatore benevolente, o altro. Se si potessero prevedere differenti esiti distributivi e si conoscessero i modi precisi per ottenerli e ci fosse qualcuno dotato di autorità sufficiente ad implementare questi stati del mondo alternativi allora avrebbe senso riflettere su quali di questi esiti alternativi debba essere considerato più giusto degli altri. Questi esiti, infatti, risulterebbero essere conseguenze di scelte deliberate di un decisore identificabile e quindi responsabile. Ma l’ordine di mercato non funziona in questo modo. Gli esiti della “catallassi” non sono prevedibili in questo medesimo senso e quindi non sono imputabili alle scelte dei singoli.
Ammette Hayek che in molti casi “il modo in cui sono distribuiti beni e oneri dal meccanismo di mercato dovrebbe in molti casi essere considerato molto ingiusto se esso fosse [però] il risultato di una distribuzione deliberatamente stabilita da persone particolari. Non è così” (p. 272). Quindi non è possibile, nel concreto, che chi si sente svantaggiato dall’ordine spontaneo del mercato incolpi un individuo o un gruppo di individui della condizione nella quale si trova, perché nessuno può essere ritenuto direttamente responsabile. Una certa allocazione non può quindi essere giusta o ingiusta “poiché i risultati non sono voluti né previsti, e dipendono da una moltitudine di circostanze che nella loro totalità non sono note ad alcuno” (ibidem).
Ma perché continuiamo ad ostinarci a ragionare secondo uno schema così fuorviante? La ragione, lo spiega bene Hayek, è di natura storica. Continuiamo ad applicare ad un contesto sociale e economico molto mutato, delle categorie concettuali che potevano aver senso nelle società tradizionali caratterizzate da frequenti le interazioni dirette vis-à-vis nelle quali era facile individuare un nesso causale tra l’azione di un singolo e le conseguenze di tale azione e quindi imputargliene la responsabilità. In queste società è possibile parlare in modo significativo di risultati economici aggregati ottenuti deliberatamente e quindi soggetti al tipo di valutazione etica che attribuiamo al comportamento degli individui stessi.
Le cose cambiano radicalmente quando utilizziamo le stesse categorie per valutare il risultato aggregato di un processo di mercato, come se ci fosse un singolo agente in grado di determinare intenzionalmente il risultato in questione. Tale errore è legato al pensiero primitivo e, per questo, l’idea di giustizia sociale ad esso connessa non è altro che un residuo di questa visione atavica. Un residuo persistente e difficile da sostituire; un’idea potente che, nonostante tutto, continuiamo ad inseguire e ricercare. Ricerca vana, ci dice Hayek, perché - e siamo alla terza dimensione della sua critica - la giustizia sociale è un ideale impossibile da realizzare in pratica. Se anche ogni individuo, nessuno escluso, volesse orientare la propria azione verso l’ottenimento di una società più giusta, posto che si sia preliminarmente raggiunto un accordo unanime su ciò che vuol dire “più giusto”, essi non saprebbero cosa fare. Non potendo prevedere, infatti, il modo in cui le loro azioni individuali andranno a determinare gli esiti aggregati, essi non saprebbero come agire.
“A volte sembra si ritenga - scrive ancora Hayek - che un semplice cambiamento delle norme di condotta individuale possa portare alla realizzazione della ‘giustizia sociale’. Ma non ci può essere nessun insieme di tali norme o principi in virtù dei quali gli individui possano dirigere la propria condotta all’interno di una Grande Società, in maniera tale che l’effetto congiunto delle loro attività sia una distribuzione di benefici che potrebbe essere definita come materialmente (…) Per ottenere un qualsiasi particolare modello di distribuzione attraverso il processo di mercato, ogni produttore dovrebbe conoscere non solo coloro a cui lui recherà danno o beneficio, ma anche quanto migliorerà la posizione attuale o potenziale di coloro che sono toccati dalle sue attività come pure i risultati dei servizi che essi riceveranno da altri membri società” (p. 290).
Se questo ragionamento non fosse ancora abbastanza convincente Hayek ne propone un altro - la sua quarta critica - che si fonda sull’incompatibilità tra la ricerca della giustizia sociale e l’economia di mercato. Abbiamo concluso il punto precedente affermando che i singoli individui che decidono in maniera decentralizzata se anche fossero perfettamente altruisti non sarebbero in grado di perseguire esiti socialmente giusti. Questa conclusione lascia pur sempre aperta, però, un’altra possibilità e cioè che sia un’autorità centrale, lo Stato, a farlo.
Qua sorge un’altra difficoltà. Se anche lo Stato, infatti, fosse in grado di superare tutti i problemi legati all’informazione sparsa e incompleta - cosa che appare altamente improbabile al di fuori dell’ordine della catallassi - esso dovrebbe intervenire sulle scelte individuali andando a violare, in questo modo, quelle regole di giustizia che un ordine liberale pone a salvaguardia delle libertà dei singoli per consentire loro di agire in maniera ottimale nel processo di generazione dell’ordine spontaneo. Per cercare di superare il problema rappresentato dalla conoscenza sparsa e incompleta lo Stato dovrebbe, quindi, violare frequentemente e pesantemente quel “dominio individuale protetto” nel quale si realizza la libertà stessa dell’individuo.. In questo modo l’aver posto al centro dell’azione politica il sia pur lodevole ideale della giustizia sociale attiverà un processo che “dovrà progressivamente condurre sempre più vicino a un sistema totalitario” (p. 270).
Come abbiamo visto la critica hayekiana all’idea di giustizia sociale è radicale anche se le sue posizioni appaiono comunque più sfumate di quelle dei libertari à la Nozick i quali, si ricorderà dai Mind the Economy dedicati al tema, vedono in ogni politica redistributiva una forma di schiavitù e di rapina. Hayek, dal canto suo, e disposto ad accettare un ruolo attivo per lo Stato in spazi di intervento “assistenziale”, per esempio nel caso delle povertà estreme, dell’assicurazione sociale e dell’istruzione pubblica. Questo lo pone in una posizione originale che gli attira le critiche dei liberali più intransigenti. Altre critiche arrivano anche da coloro che invece si fanno fautori della ricerca della giustizia sociale.
Fallacia del fantoccio
A questo riguardo, secondo non pochi autori, la ricostruzione hayekiana del problema è, infatti, esageratamente ingenua. Lo si accusa, in altri termini della classica “fallacia del fantoccio” (straw man fallacy) secondo la quale prima si costruisce una versione volutamente caricaturale della tesi che si vuole criticare per poterla poi ridicolizzare più facilmente. La versione “fantoccio” dell’idea di giustizia sociale prevede l’esistenza di un insieme di individui che compongono una società, di un insieme fisso di risorse da distribuire e di un’agenzia responsabile dell’allocazione delle risorse. Il problema si risolverebbe identificando il miglior principio di distribuzione che l’agenzia dovrebbe utilizzare.
Rappresentato in questo modo, il problema della giustizia sociale, come nota il politologo inglese David Miller, è semplicemente “una versione più complessa del problema affrontato da un genitore che al compleanno del figlio deve decidere come spartire la torta tra tutti gli altri piccoli invitati. Il genitore dovrà dividere la torta in parti uguali? Dovrà tenere conto della fame o del merito o dell’età di ogni invitato? È facile per i critici della giustizia sociale ridicolizzare questa visione”. Perché, in realtà, prosegue Miller, non esiste un’unica agenzia di distribuzione nella società, né uno stock fisso di risorse in attesa di essere distribuite. Le risorse, infatti, è questo è uno dei punti fondanti della critica di Hayek, vengono continuamente create, trasferite e consumate e - come nota al riguardo Miller - “ciò è particolarmente evidente nelle società in cui il meccanismo economico principale è il libero mercato e la ‘distribuzione’ è il risultato di un numero enorme di transazioni volontarie tra individui diversi” (Principles of Social Justice, Harvard University Press, 1999, p. 109).
In una prospettiva meno ingenua di quella hayekiana si individuerebbe lo scopo di una teoria della giustizia sociale non tanto nell’elaborazione di criteri attraverso i quali valutare le possibili allocazioni di risorse, opportunità e diritti ma, piuttosto, nella discussione del modo in cui le principali istituzioni e le pratiche sociali di ogni comunità contribuiscono direttamente e indirettamente a determinare quelle stesse distribuzioni. In questa prospettiva, dunque, la critica di Hayek fondata sulla non-intenzionalità degli equilibri di mercato appare del tutto fuori bersaglio. Anche il mercato rappresenta, infatti, una di quelle istituzioni il cui funzionamento andrebbe sottoposto allo scrutinio di una siffatta teoria della giustizia sociale. E questo è un terreno nel quale, come vedremo in seguito, si svilupperà un interessante dialogo, sia pure a distanza, tra John Rawls e l’economista e filosofo austriaco.