I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 07/01/2024
Il capitalismo è per Marx, un sistema irriformabile. Solo un radicale sovvertimento delle sue strutture economiche potrà portare al profondo mutamento sociale necessario per l’eliminazione dei suoi esiti più odiosi: lo sfruttamento, l’alienazione e la de-umanizzazione. È irriformabile perché nell’ambito della sua cornice giuridica e morale – la morale borghese – esso è da ritenersi perfino giusto. Non sarà quindi un anelito di giustizia da parte dei cittadini a generare il cambiamento ma solo le contraddizioni interne al capitalismo maturo che venendo alla luce in maniera esplicita lo porteranno, presto o tardi, al collasso.
La prima fase della transizione è quella che convenzionalmente viene detta del “socialismo” che poi, nella seconda fase, darà vita al “comunismo compiuto”, quando, come scrive Marx ne Il Capitale, “la forma del processo di vita sociale, cioè del processo di produzione materiale, si spoglia del suo mistico velo di nebbia [perché], come prodotto di uomini liberamente associati, [viene] sottoposto al loro controllo cosciente, e conforme ad un piano”. Il passaggio sarà dunque quella da una società di classe ad una “libera associazione di produttori”, i quali agiranno secondo un piano condiviso e democraticamente approvato. In questa società non ci saranno più né “coscienza ideologica” né alienazione, né sfruttamento.
La coscienza ideologica è per Marx l’insieme delle “apparenze socialmente necessarie”, fatto di illusioni e inganni. Le illusioni rappresentano delle distorsioni nel modo in cui percepiamo la realtà che spesso ci appare offuscata e la cui natura profonda fatichiamo a riconoscere. L’esempio classico riguarda l’appropriazione da parte dei capitalisti del “pluslavoro” dei proletari i quali, come abbiamo visto in occasioni precedenti neanche sono in grado di percepire questa espropriazione. È solo attraverso la teoria economica marxiana del valore-lavoro che il processo di appropriazione dell’eccedenza e della sua trasformazione in plusvalore da parte del capitalista diventa palese.
Gli inganni, invece, non riguardano percezioni distorte o limitate della realtà, ma la creazione di una falsa realtà che ci spinge ad accettare valori e modi di vita che altrimenti non saremmo disposti ad accogliere. La religione appartiene alla categoria degli inganni. Sul punto la posizione di Marx è interessante perché essendo tali inganni, come tutta la coscienza ideologica, del resto, una conseguenza diretta delle condizioni sociali determinate dal modo di produzione capitalistico, criticare la religione come faceva per esempio Feuerbach, perché frutto del desiderio di appagare desideri immaginari legati ad un mondo immaginario, non ha molto senso. Per Marx, infatti, il bisogno di trascendenza non è altro che una forma naturale e comprensibile di adattamento psicologiche alle condizioni materiali derivanti dall’organizzazione sociale. Non occorre dunque criticare l’atteggiamento religioso quanto le condizioni che lo rendono necessario. E per questo che, come nota John Rawls nella sua lezione su Marx, “Fino a che le condizioni sociali non saranno modificate in modo tale per cui i reali bisogni umani potranno essere effettivamente soddisfatti in una società di produttori liberamente associati, la religione perdurerà”.
Analogamente alla scomparsa della coscienza ideologica, l’avvento del comunismo maturo porterà al superamento dell’alienazione e dello sfruttamento tipici del capitalismo. L’alienazione è generata dal distacco esistente tra i lavoratori e il frutto materiale del loro lavoro, i beni che vengono prodotti dai proletari ma posseduti e gestiti dai capitalisti. Tali beni poi vengono scambiati sul mercato ad un prezzo la cui dinamica esula dal controllo dei lavoratori e dalla loro comprensione. L’alienazione assume anche una terza forma che è quella relativa alla natura esterna del lavoro, al fatto cioè che il lavoro capitalistico, essendo solamente mezzo necessario alla sussistenza, alla riproduzione della forza lavoro, non è, come dovrebbe essere, una via di sviluppo e di promozione delle capacità individuali. Il lavoro capitalistico viene percepito per questa ragione come privo di senso. L’alienazione si presenta in un’ulteriore quarta forma, che è quella dell’alienazione dagli altri sia tra i lavoratori che tra i lavoratori e i capitalisti. Questo effetto deriva dall’azione mediatrice del mercato che genera conflitto tra i lavoratori e i capitalisti e più in generale rende gli individui tra loro mutuamente indifferenti.
Il passaggio al comunismo eliminerà queste diverse forme di alienazione, così come produrrà il superamento della coscienza ideologica, perché porterà alla formazione di una società di “produttori liberamente associati” i quali comprendono la logica di produzione e di distribuzione delle merci e la governano attraverso l’elaborazione di un piano democraticamente approvato.
Oltre all’eliminazione della coscienza ideologica e dell’alienazione, il passaggio al comunismo, segnerà la fine dello sfruttamento. Lo sfruttamento dei proletari nasce, infatti, come abbiamo visto, dal monopolio che i capitalisti hanno sulla proprietà dei mezzi di produzione. Tale proprietà, a sua volta, consente ai capitalisti di estrarre “pluslavoro” dai proletari; quell’eccedenza di lavoro non retribuito che va ad aumentare la capacità produttiva dei capitalisti. Questi, inoltre, hanno la possibilità di gestire nel concreto tutte le caratteristiche del processo produttivo e, infine, di determinare il flusso degli investimenti e di orientare, in questo modo, lo sviluppo sociale secondo i loro interessi di classe. Tutte queste prerogative verranno meno nel momento in cui il comunismo stabilirà la società di “produttori liberamente associati” i quali elimineranno il monopolio dei mezzi di produzione, il controllo di classe sui processi produttivi e sui flussi di investimento. Non ci sarà, quindi, l’estrazione indebita del lavoro non pagato perché il valore ad esso associato, il “surplus sociale complessivo”, andrà, secondo Marx, a costituire un fondo volontario dedicato alla produzione di beni pubblici al cui godimento ogni cittadino avrà diritto.
Questo passaggio dal capitalismo al comunismo sarà comunque graduale e attraverserà la fase intermedia del socialismo. In questa prima transizione sarà ancora presente la divisione del lavoro e tale lavoro sarà ricompensato in misura uguale. Ciò appare contraddittorio agli occhi di Marx. A causa delle differenze nelle doti individuali e nella qualità del lavoro, infatti, l’applicazione di un metro di valutazione uguale per ogni lavoratore genererà disuguaglianza. Come avevamo già visto ne La critica al programma di Gotha, la remunerazione sulla base del lavoro rappresenta “un diritto disuguale, per lavoro disuguale [che] non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come privilegio naturale. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza”. Anche nella fase del socialismo, dunque, questa disuguaglianza sarà ancora presente e contribuirà a generare ciò che John Roemer chiama “sfruttamento socialista” (Value, Exploitation and Class, Horwood, 1986). Tale sfruttamento potrà essere superato esclusivamente attraverso la maturazione verso il comunismo maturo e il mutamento delle condizioni di produzione che esso porterà, in particolare, attraverso l’eliminazione della divisione del lavoro.
Questo passaggio a forme di produzione svincolate da una rigida divisione del lavoro produrrà, secondo Marx, una serie articolata di conseguenze positive, innanzitutto di natura materiale grazie all’abbondanza illimitata derivante dalla distribuzione dei benefici economici e dal potenziamento generalizzato dei mezzi di produzione. Il secondo beneficio è legato al mutamento del ruolo sociale del lavoro. Esso, infatti, non sarà più solo un mezzo necessario alla riproduzione della forza lavoro, ma diventerà una scelta volontaria grazie alla quale l’attività lavorativa acquisterà quel senso di cui il capitalismo l’ha privata.
Torniamo ora, in conclusione, all’interrogativo che ha motivato la nostra analisi del pensiero marxiano e del suo posto nella storia dell’idea di giustizia: il comunismo realizza una società giusta? Le risposte a tale quesito, come abbiamo visto, sono state differenti, anche molto differenti. Particolarmente convincente mi pare la posizione di Rawls al riguardo. Il comunismo vuole realizzare una società egualitaria e non coercitiva caratterizzata da un uguale accesso ai mezzi di produzione, un uguale diritto al processo di elaborazione e di approvazione delle linee di sviluppo economiche – il cosiddetto “piano” – ed un uguale dovere al lavoro necessario al soddisfacimento degli interessi comuni. Tale società può essere ritenuta giusta fintantoché si può ritenere il principio di uguaglianza un principio basilare di giustizia. Il discorso diventa più complicato e contraddittorio quando si analizza la dinamica delle forze che generano il passaggio da una società dello sfruttamento, il capitalismo, a questa società dell’uguaglianza, il comunismo. Tali forze non possono coincidere per Marx con un anelito ideale alla giustizia, un sentimento del quale, anzi, egli si fa beffe. E questo per due ragioni principali: la prima è che quando si è totalmente immersi nella cultura capitalistica non è possibile percepirne l’ingiustizia; secondo, perché quella della morale è una base troppo debole per attivare le forze necessarie al cambiamento dei modi di produzione.
Ma anche una volta realizzato il comunismo non si potrà dire, sempre secondo Marx, che i cittadini considereranno tale società una società giusta. Il senso di giustizia non avrà, allora, più ragione di essere. Come per un pesce non ha significato il concetto di “bagnato”, in una società pienamente giusta non può aver senso il concetto di “giustizia”. Su questo ultimo punto la posizione di Rawls si fa critica e tale critica mi sembra condivisibile. Dice Rawls a proposito dei comunisti che vivono il comunismo ignare dell’idea di giustizia: “Queste persone ci sono estranee”. E mentre l’assenza di interesse per la giustizia era per Marx un tratto desiderabile, per il filosofo americano essa rappresenta una mancanza non solo morale, ma anche un punto di debolezza storico di tutto il sistema di pensiero marxiano. In altre parole, la fiducia nelle forze del cambiamento esclusivamente legate alla dinamica economica e alle contraddizioni interne al capitalismo è una fiducia, come potremmo affermare oggi anche alla luce dell’esperienza storica, mal riposta. “Le istituzioni giuste – scrive Rawls -, non emergeranno da sole, ma (…) dipenderanno dal fatto che i cittadini avranno un senso di giustizia appreso nell’ambito di quelle stesse istituzioni (…) Avere un senso di giustizia, e tutto ciò che implica, fa parte della vita umana e del comprendere le altre persone e riconoscere le loro richieste”. L’azione sociale che non prenda in considerazione la nostra interdipendenza e non scaturisca dalla preoccupazione per le legittime esigenze degli altri è una vita sociale, dunque, che ignora le “condizioni essenziali di una società umana decente”.