I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 24/12/2023
Per quanto possa sembrare strano, visto il personaggio e il suo retaggio storico, Karl Marx non discute praticamente mai in maniera esplicita il concetto di giustizia. E quelle poche volte che lo fa, lo fa in un modo così ambiguo e contradittorio che questo ha generato non pochi imbarazzi e fraintendimenti tra i suoi interpreti. Il punto chiave della questione è che da una parte, come è noto, Marx teorizza il superamento del capitalismo considerandolo un sistema fondato sullo sfruttamento dei lavoratori, ma dall’altra, in varie occasioni, afferma che lo stesso capitalismo non può essere considerato un sistema ingiusto.
Nell’ambito della sua peculiare nozione di giustizia come conformità al quadro giuridico, il comportamento dei capitalisti, dei proprietari terrieri e dei prestatori di denaro, in quanto perfettamente conforme al corpus di norme giuridiche vigente, non può essere criticato né messo in discussione su basi etiche o morali. Ma allora perché il capitalismo va sostituito?
La sfida radicale di Marx
Questo è il paradosso che abbiamo affrontato e cercato di chiarire nel Mind the Economy della settimana scorsa. Ne è emerso un quadro nel quale il filosofo lancia una sfida radicale non solo al sistema economico e alle sue conseguenze distributive ma anche a tutto il corpus di valori, concetti, idee, su cui si fonda e che sostiene il sistema capitalistico e la società borghese. Nella sua critica Marx attacca frontalmente due capisaldi del pensiero liberale: il primo è il principio secondo cui la giustizia dev’essere la prima virtù delle istituzioni e il secondo, è quello secondo cui la tutela dei diritti dei cittadini è la prima virtù di quelle stesse istituzioni.
Ma allora istituzioni giuste e rispettose dei diritti umani non sono ciò che ci si deve aspettare da una società giusta? Secondo Marx c’è molto altro. La principale accusa che egli rivolge al capitalismo non è quella di essere ingiusto o di non rispettare i diritti umani, ma quella di essere basato su modi di produzione altamente imperfetti anche se fondati su idee condivisibili - all’interno di un quadro borghese - di giustizia e rispetto del diritto.
Tale critica si sviluppa poi considerando che una società che rende necessarie concezioni di giustizia le esigenze della giustizia non possono essere soddisfatte; quindi, ogni sforzo per riformare tali società nel senso di una maggiore giustizia è destinato al fallimento.
In terzo luogo, afferma Marx, né la lotta per i diritti né quella per una maggiore giustizia potranno mai avere una forza sufficiente a far scaturire un’azione realmente rivoluzionaria. Infine, una volta operata la transizione al comunismo, il bisogno stesso di utilizzare concetti come “giustizia” o “diritti” verrà meno in quanto superfluo. Marx non è un riformista; non si accontenta di generiche rivendicazioni in vista di una distribuzione della ricchezza più egualitaria o su migliori condizioni di lavoro, come si limitavano a fare, per esempio gli estensori del “programma di Gotha”. Al riguardo John Rawls riporta che durante una conferenza a Londra nel 1865, Marx ebbe a dire «Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”».
Siamo davanti ad un pensatore rivoluzionario che voleva sovvertire il sistema capitalistico e sostituirlo con uno nel quale la proprietà dei mezzi di produzione non fosse più monopolio esclusivo dei capitalisti. Perché era convinto che fosse inutile sperare in una più giusta distribuzione della ricchezza se non si modificavano prima i rapporti di produzione che erano all’origine di quella stessa distribuzione.
Il senso della giustizia di Marx
Certo questo pone un altro tema: se il capitalismo è giusto ma va comunque sostituito perché si fonda sullo sfruttamento, in base a quale criterio etico possiamo giudicare lo sfruttamento dei lavoratori come qualcosa di inaccettabile? Sempre Rawls nelle su Lezioni di Storia della Filosofia Politica ci viene in soccorso anche su questo punto: «Marx potrebbe essere stato spinto da diversi motivi per non dire a chiare lettere che il capitalismo è ingiusto. Ma nessuna di queste ragioni è tale da impedirgli di avere idee sulla giustizia e pensare in cuor suo che il capitalismo sia ingiusto».
Se poi pensiamo alla giustizia non solamente come all’adeguamento alle norme giuridiche, ma come a qualcosa di più profondo che riguarda la natura stessa delle istituzioni che regolano la nostra vita in comune «allora Marx – così continua Rawls - potrebbe avere avuto, almeno implicitamente, una concezione della giustizia politica nel senso ampio del termine». Quale potrebbe essere allora questo senso più ampio della giustizia che Marx può aver sviluppato? Rawls non ce lo dice. Ma alcuni altri interpreti hanno analizzato a fondo la questione e fornito risposte interessanti. Allen Buchanan è uno di questi. Nel suo Marx and Justice: The Radical Critique of Liberalism (Rowman & Littlefield, 1982) suggerisce di procedere preliminarmente con la distinzione del concetto di giustizia giuridica in una prima accezione che egli definisce “critica” ed in una seconda che, invece, denota come “esplicativa”.
Nel primo caso l’idea di giustizia non solo rappresenta il principale criterio per valutare la natura di un ordinamento sociale, ma costituisce anche il movente per le azioni volte a proteggere un certo stato di cose, se lo si ritiene giusto, o per modificarlo, se quello esistente viene considerato ingiusto. Nell’accezione “esplicativa”, invece, il concetto rappresenta il centro di un’analisi giuridica della società, un’analisi, cioè, secondo la lezione hegeliana, che considera come l’idea di giustizia e dei diritti siano incorporati e concretamente si inverino nelle istituzioni che caratterizzano quella società in un dato momento della sua evoluzione storica. Questi concetti di giustizia giuridica possono giocare un duplice ruolo perché possono sia farci comprendere cosa non funziona in un certo ordine sociale e dall’altra anche costituire la ragione per agire in vista di un cambiamento.
Marx si pone in netta opposizione con entrambe queste prospettive. Egli è infatti convinto che quella dell’idea di giustizia non sia la chiave di interpretazione corretta né per spiegare né per valutare i fenomeni sociali; spiegazione che solo può derivare da una analisi precisa delle caratteristiche dei modi di produzione. In questo senso l’interpretazione di Robert Tucker e di Allen Wood, che abbiamo discusso due settimane fa e che correttamente sottolinea la distanza di Marx da un’idea “critica” di giustizia sembra cogliere nel segno. Il problema è che lo fa estendendo arbitrariamente i confini della critica marxiana della giustizia distributiva ad ogni altra concezione politica e civile di giustizia.
È vero che Marx ridicolizza coloro che, come nel “programma di Gotha”, spingono per riformare il capitalismo rivendicando una maggiore giustizia distributiva, perché non comprendono che l’ingiustizia che vorrebbero combattere è solo il sintomo di una malattia più grave che riguarda la natura delle relazioni produttive del capitalismo. Questi confondono, sostiene Marx, effetto e causa e vorrebbero guarire i sintomi senza riconoscere la malattia. È anche vero che egli ritiene che in un regime comunista il problema della giustizia non si porrà o avrà un’importanza estremamente limitata. Avendo infatti superato il monopolio dei mezzi di produzione tipico delle società di classe e avendo, così, eliminato l’asimmetria di potere tra capitalisti e lavoratori e i problemi legati allo sfruttamento, la questione della giustizia distributiva viene superata alla radice, eliminando, in questo modo, la necessità stessa di una sua rivendicazione.
Quando Marx usa il tradizionale slogan socialista “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!” lo sta facendo non per illustrare in funzione “critica” l’ideale di giustizia distributiva comunista, ma piuttosto in funzione “esplicativa” per illustrare come le cose andranno effettivamente in una società compiutamente comunista. Non sta spronando all’azione, sta prefigurando il futuro. Da questo punto di vista, dunque, afferma Buchanan «la superiorità del comunismo non sta nel fatto che risolve finalmente il problema della giustizia distributiva individuando e attuando il principio in maniera corretta. La superiorità del comunismo sta, piuttosto, nella possibilità di rendere oziosa l’intera questione della giustizia distributiva».
Ma il rapporto che Marx intesse con l’idea di giustizia continua a non apparire sfuggente fintantoché lo si analizza, come fanno Wood e Tucker, rimanendo nell’ambito ristretto di una visione esclusivamente distributiva della giustizia. Marx, infatti, sviluppa, principalmente nel suo Sulla questione ebraica (1843), una critica articolata ad una visione ampia di giustizia che potremmo qualificare come civile e politica.
Qui Marx discute il problema dei diritti umani, intesi sia come “diritti dell’uomo” che come “diritti del cittadino”. Mentre questi ultimi riguardano principalmente la partecipazione politica e il diritto di voto, i “diritti dell’uomo” comprendono la libertà di espressione, l’uguaglianza davanti alla legge, il diritto alla proprietà privata, alla sicurezza e alla libertà. La critica marxiana ai diritti umani si inserisce nella critica più generale allo stato liberale che se da una parte vuole favorire l’emancipazione politica, non altrettanto riesce a fare rispetto ad un genuino e più ampio processo di emancipazione umana. Questo potrà essere compiuto solamente nell’ambito del comunismo. In Sulla questione ebraica Marx sottolinea che «i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme, come distinti dai droits du citoyen, non sono se non i diritti del membro della società civile, vale a dire dell’uomo egoista, dell’uomo scisso dall’uomo e dalla comunità».
Diritti da “superare”
La società civile viene qui intesa negativamente, come del resto lo era nella tradizione hegeliana, perché la si fa coincidere con il luogo dell’interesse personale, del soddisfacimento dei bisogni e degli scambi commerciali, in definitiva con il cuore del sistema capitalistico. Marx sta dunque affermando che i diritti dell’uomo hanno valore solo per l’uomo “egoista” e “scisso dalla comunità”, autointeressato ed individualista. Anche il più basilare e fondamentale diritto dell’uomo, il diritto alla libertà, è criticato perché, secondo Marx, non si fonda «sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sulla separatezza dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a quella separatezza, il diritto dell’individuo limitato, limitato a sé». Dal diritto alla libertà deriva per via immediata il diritto alla proprietà privata, cui Marx dedica grande attenzione. Tale diritto sancisce la possibilità «di beneficiare a proprio piacimento (à son gré), senza curarsi degli altri uomini, a prescindere dalla società, dei propri beni e di disporre di essi».
Si tratta di un vero e proprio “diritto al proprio tornaconto”, come lo definisce il filosofo. La critica al progetto di emancipazione politica che costituisce la promessa del liberalismo dei diritti umani si fonda sul fatto che tale emancipazione è mendace perché «lascia che ogni uomo rinvenga nell’altro uomo non la realizzazione, ma piuttosto il limite della propria libertà», come ancora leggiamo ne Sulla questione ebraica.
In altri termini l’insistenza sul diritto alla proprietà privata è contemporaneamente sintomo e causa di una società nella quale gli altri vengono visti o come mezzi attraverso cui accrescere la propria ricchezza o come pericolosi intrusi da cui difendere i propri beni.
La proprietà privata è conseguenza, dunque, e allo stesso tempo causa di una società nella quale l’esistenza umana è immaginata analoga a quella di una «monade isolata e ripiegata su sé stessa». Ecco perché, come scrive Marx, il diritto alla proprietà privata è un diritto che ha valore solo per «l’uomo egoista (…) l’uomo scisso dall’uomo e dalla comunità». Più in generale tutta la critica marxiana ai diritti è una critica che vede nella necessità di proteggersi gli uni dagli altri attraverso la tutela dei diritti individuali il sintomo di una società generatrice di conflitto e profondamente malata. In una società emancipata non solo politicamente, come quella che promette il liberalismo, ma anche umanamente, così come propone il comunismo, il ruolo difensivo della proprietà privata non sarà più indispensabile in quanto nel rapporto con gli altri si troverà, non già il potenziale conflitto, ma, hegelianamente, la piena realizzazione della propria libertà. Sanando la società attraverso il passaggio al comunismo, continua Marx, la necessità di diritti garantiti per legge verrà meno. Non verranno meno i diritti, certamente, ma diverrà superflua la necessità di una loro protezione su base legale.
Non sono dunque il desiderio di giustizia o di maggiori diritti le ragioni che stanno alla base del movimento rivoluzionario.
Saranno le stesse contraddizioni interne del capitalismo una volta diventate insostenibili ad indicare la via ai proletari. Una sempre più esigua minoranza di proprietari non-lavoratori che fronteggia una crescente maggioranza di lavoratori non proprietari. I proprietari che diventano sempre più ricchi, mentre coloro che possiedono solo la propria forza lavoro diventano sempre più poveri. «Il paradosso della povertà prodotta dalla sovrabbondanza - come scrive ancora Allan Buchanan – spoglia di qualunque significativo ruolo motivazionale i principi di giustizia o altri principi morali di qualsiasi». Perché la società comunista sarà, dunque, secondo Marx, non solo al di là della giustizia, ma anche al di là dei diritti individuali.