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L’utilitarismo, le tasse e la scommessa sull’esistenza di Dio

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 06/08/2023

 Gli eroi intellettuali dell'utilitarismo classico, da Cesare Beccaria a John Stuart Mill, da Francis Hutcheson, Claude-Adrien Helvétius a Ferdinando Galiani, Pietro Verri e soprattutto Jeremy Bentham, colui che viene ritenuto il sistematizzatore, se non proprio il fondatore, di questo approccio filosofico, erano convinti che il giudizio su una società giusta debba basarsi su due pilastri fondamentali dai nomi bizzarri: consequenzialismo e welfarismo. Il consequenzialismo suggerisce che la misura della bontà di una certa azione rispetto ad un'altra sia data esclusivamente dalla valutazione delle conseguenze delle due azioni. Se ciò che produce la prima azione è meglio rispetto a ciò che produce la seconda, allora la prima azione sarà da ritenersi moralmente migliore della seconda. Il welfarismo ci da invece il metro per misurare la bontà di tali conseguenze. Queste andrebbero valutate sulla base del benessere che producono per i singoli, del piacere, della felicità variamente intesa o, simmetricamente, della riduzione della sofferenza o dell'infelicità causata a ciascun cittadino.

La scommessa di Pascal

Facciamo un passo indietro di un secolo rispetto a Bentham e proviamo a considerare la famosa “scommessa di Pascal”: è meglio credere o non credere all'esistenza di Dio. Pascal sostiene che se Dio dovesse esistere e con esso l'inferno e il paradiso, una vita virtuosa porterebbe un beneficio infinito – le gioie del paradiso, appunto - mentre una vita viziosa condurrebbe alla dannazione eterna. Ma se Dio non esistesse e noi avessimo vissuto una vita virtuosa di stenti e privazioni? Naturalmente, infatti, i premi e le punizioni hanno un valore differente in base alla probabilità che Dio effettivamente esista. Immaginiamo, ottimisticamente, che le probabilità siano 50 e 50. “Pesiamo il guadagno e la perdita puntando su croce – scrive Pascal nei Pensieri - cioè che Dio esiste. Valutiamo i due casi: se vincete, vincete tutto, ma se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che Dio esiste senza esitare (…) Vediamo, poiché vi è un rischio reciproco di guadagno e di perdita, se non aveste che due vite da guadagnare contro una, potreste ancora scommettere, ma se ce ne fossero tre da guadagnare, bisognerebbe giocare e, se foste costretto a giocare, sarebbe imprudente non scommettere la vostra vita per guadagnarne tre a un gioco dove c'è uguale possibilità di perdita e di guadagno.

Ma c'è un'eternità di vita e di felicità. Stando così le cose, anche se ci fosse un'infinità di casi di cui uno solo a vostro favore, avreste ancora ragione a scommettere uno per avere due, e sarebbe illogico, essendo obbligati a giocare, rifiutare di giocare una vita contro tre a un gioco dove, su un'infinità di casi, ce n'è uno per voi, qualora ci fosse da vincere una vita infinita e infinitamente felice”. Ci dice Pascal che per quanto infinitesima possa essere la probabilità dell'esistenza di Dio, se moltiplicata per il valore della vita eterna - un valore infinito - la scommessa di scegliere una vita virtuosa sarà sempre e comunque una scommessa vincente. Ecco l'argomento dalla “scommessa di Pascal” è un ragionamento consequenzialista. Credere in Dio o non crederci non è buono o malvagio in sé, diventa buono o malvagio in relazione alla bontà delle sue conseguenze: la vita o la dannazione eterna, rispettivamente.

L'esperimento

In linea di massima questo sembra un criterio di valutazione più che ragionevole. Proviamo a considerare questo esempio: siete stati abbinati ad una persona che non conoscete e la cui identità non conoscerete neanche alla fine della prova. Questa persona ha ricevuto dieci euro che deve decidere se e come dividere con voi. Voi potrete accettare o rifiutare la sua offerta. Se accettate porterete a casa quello che vi avranno offerto altrimenti, se rifiutate, nessuno porterà a casa niente. Immaginate che l'altra persona abbia due possibilità: darvi 2 euro e tenersene 8, oppure darvi 5 euro e tenersene 5. Se vi dovesse effettivamente offrire 2 euro accettereste o rifiutereste? Ora considerate un secondo scenario: le offerte potrebbero essere sempre di 2 euro (8 andrebbero all'altro) oppure di 0 e l'altro terrebbe tutti e 10 gli euro. Se, in questo secondo caso, vi offrisse 2 euro come reagireste? Accettereste o rifiutereste? Le conseguenze della vostra eventuale scelta saranno le stesse in entrambi i casi: 2 se accettate e 0 se rifiutate.

Un esperimento condotto qualche tempo fa dagli economisti Armin Falk, Ernst Fehr e Urs Fischbacher, con incentivi reali e in condizioni di anonimato, ha mostrato che i partecipanti rifiutano la prima offerta il 44.4% delle volte e la seconda, invece, solo nell'8.9% dei casi. Tale risultato mostra che le nostre valutazioni sulla bontà delle scelte non si basa, di fatto, esclusivamente sulla qualità delle loro conseguenze, ma anche sulle intenzioni che possiamo ascrivere a tali scelte. Se mi offri 2 euro quando avresti potuto offrirmene 5, non è lo stesso di quando me ne offri 2 con l'alternativa di 0. Nel primo caso intendi essere egoista, nel secondo caso altruista. E l'ascrizione di queste differenti intenzioni modifica la mia risposta anche a parità di conseguenze.

Utilitarismo e Covid

L'utilitarismo mostra, in casi come questi, i suoi limiti, eppure ancora oggi, spesso in modi mascherati, continua ad esercitare la sua profonda influenza. Tracce di questa impostazione sono riemerse nel dibattito pubblico durante i momenti più drammatici della pandemia di COVID-19.

Quando i posti in terapia intensiva e i macchinari per la ventilazione forzata scarseggiavano, vennero resi pubblici diversi protocolli di gestione delle emergenze che assegnavano priorità nell'accesso alle cure a certe categorie di persone e che ne condannavano altre. Si doveva decidere a chi assegnare prioritariamente respiratori, posti in terapia intensiva, vaccini, disponibili solo in quantità limitate. Nello stato del Tennessee, per esempio, chi soffriva di atrofia muscolare spinale non avrebbe avuto accesso alla terapia intensiva. In Minnesota, invece,coloro che erano affetti da malattie polmonari e cardiache sarebbero stati i primi ad essere esclusi. Nello Stato di Washington, così come in Alabama, Utah, Colorado e Oregon, la decisione sarebbe spettata ai medici sulla base del livello di abilità fisica e intellettiva dei pazienti. Perché? Perché in termini utilitaristici il beneficio sociale della loro inclusione tra i curabili era inferiore al beneficio che si sarebbe ottenuto curando chiunque altro, magari più giovane e produttivo.

Uno dei pilastri, il consequenzialismo, dunque, sembra non essere così solido come appariva a prima vista. Lo stesso si potrebbe dire del secondo pilastro, il welfarismo.

Bentham e Pascal

Nella visione welfarista la bontà di certe azioni viene misurata con il benessere associato alle conseguenze di tali azioni. Nel caso dell'utilitarismo classico di Bentham, tale benessere coincide con il piacere o la riduzione della sofferenza sperimentata dai singoli individui.

A questo proposito torna di nuovo utile l'esempio di Pascal. Qual è l'unità di misura della felicità, il metro con il quale la compariamo? Secondo gli utilitaristi, l'abbiamo detto, è l'“utilità”, appunto. Scrive Bentham nell'Introduzione ai principi della morale e della legislazione, “Per utilità si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre benefìcio, vantaggio, piacere, bene o felicità (in questo contesto tutte queste cose si equivalgono) oppure ad evitare che si verifichi quel danno, dolore, male o infelicità”.

Per Pascal, come abbiamo visto, il metro di decisione coincide con la “speranza matematica” associata ad una certa conseguenza, il suo “valore atteso”, diremmo oggi. Quel valore, cioè, associato ad una certa conseguenza – “la conquista del paradiso” – che viene moltiplicato per la probabilità che tale conseguenza effettivamente si verifichi – “la probabilità che Dio esista”. Bentham è uno dei primi ad intuire che le cose sono un po' più complicate.

Il paradosso di San Pietroburgo

Facciamo un passo indietro. Nel 1713 il matematico Nikolaus Bernoulli, rampollo di una famiglia di geniali mercanti, matematici, astronomi e fisici di origine fiamminga, propose alla comunità dei matematici dell'epoca un rompicapo che prenderà il nome di “Paradosso di San Pietroburgo”. Immaginate un gioco che procede in questa maniera: si lancia una moneta e si vince 1 euro se esce “croce”. Si rilancia e se esce nuovamente “croce” si vincono 2 euro. Se esce “croce” anche al terzo lancio si vincono 4 euro e così via via raddoppiando, fino a quando non smette di uscire “croce” e il gioco si interrompe. Quanto sareste disposti a pagare per poter giocare a questo gioco?

Se utilizzassimo il criterio della “speranza matematica” di Pascal dovremmo calcolare la somma di tutte le vincite possibili e moltiplicarlo per la probabilità che queste di verifichino effettivamente. È possibile dimostrare che tale valore è uguale a “infinito”. L'ammontare della vincita, infatti, aumenta più velocemente, di quanto non si riduca la probabilità che questa si verifichi. Dovremmo essere disposti quindi a cedere qualunque ricchezza pur di guadagnare il diritto di giocare ad un simile gioco. Ma se lo si chiede alle persone in carne e ossa, queste saranno disposte a pagare in genere 1 o 2 euro al massimo.

La speranza morale

La cosa creava non pochi problemi a Bernoulli e a molti altri matematici dell'epoca. La soluzione venne trovata da un altro Bernoulli, Daniel, il cugino di Nikolaus, che nel 1738 pubblica una memoria nella quale suggerisce un'idea semplice e geniale. Secondo Daniel, ciò che per noi conta e che, quindi, determina le nostre scelte, non è tanto il valore monetario della vincita, la “speranza matematica di Pascal” ma la sua “speranza morale”; l'equivalente della “speranza matematica” dell'utilità derivante dai guadagni monetari del gioco. La novità sta nel fatto che questa “utilità” segue una legge bene precisa, quella che oggi gli economisti indicano con il nome di legge dell'utilità marginale decrescente. Vuol dire che quando sono affamato e mangio un trancio di pizza, ne traggo un grande beneficio. Il beneficio associato al secondo trancio di pizza, visto che mi sono già parzialmente sfamato con il primo, sarà inferiore, e così con il terzo e poi il quarto. Il beneficio che si ottiene dal consumo di una unità aggiuntiva di un normale bene economico è via via decrescente.

Per risolvere il paradosso Bernoulli assume che la percezione del benessere che noi abbiamo dalla vincita del premio segue la stessa logica. Ne calcola, dunque, non più il valore monetario atteso, come avrebbe fatto Pascal, ma la sua “utilità attesa” e ne ricava un valore finito. Quello che tutti noi, più o meno saremmo disposti ad attribuire al gioco. Jeremy Bentham intuisce, in ambito morale, che il piacere e il dolore, calcolati in termini di utilità, si comportano allo stesso modo, secondo la legge dell'utilità marginale decrescente. Questa idea porterà alcuni decenni dopo alla cosiddetta rivoluzione marginalista nelle scienze economiche e alla derivazione di implicazioni sociali, politiche ed economiche molto rilevanti per l'approccio utilitarista, tra cui, per esempio, la giustificazione del prelievo fiscale e delle politiche redistributive. Perché, sotto alcune condizioni, è più giusto ridurre il benessere di qualcuno per far crescere quello di molti altri. O almeno così la pensava Bentham.

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