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Rousseau e la “volontà generale”. Perché giustizia e utilità non devono essere separate?

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 23/07/2023

“Sono per inclinazione naturale un ricercatore. Sento tutta la sete del conoscere e l'irrequieta brama di progredirvi o la gioia che desta ogni acquisizione. Ci fu un tempo in cui credevo che solo questo costituisse l'onore dell'umanità, e sprezzavo il volgo che nulla sa. Rousseau mi ha aperto gli occhi (…) ho imparato a rispettare gli uomini; e troverei me stesso più inutile di un comune lavoratore, se non credessi che questo mio lavoro di ricerca può dare un valore a tutti gli altri, a ristabilire i diritti dell'umanità”. Questo scriveva Immanuel Kant nelle sue Annotazioni alle “Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime” a proposito di Jean-Jacques Rousseau, il primo filosofo moderno a tematizzare l'idea di disuguaglianza sociale come conseguenza del progresso. 

Uno stato di cose che si determina attraverso il processo di civilizzazione nel quale si passa dall'originaria indipendenza e autosufficienza alla totale dipendenza dagli altri, dalle loro capacità, dalla loro stima. È in questo contesto che le naturali differenze diventano un fardello, perché si creano gerarchie e dominanze che nel primo stato di natura non avrebbero ragione di essere. Per affrancarsi da tale nuovo, civilizzato, stato di natura e liberarsi del peso della dipendenza Rousseau propone una mossa radicale: rinunciare alla propria libertà individuale assoggettandosi totalmente alla comunità.

In questo modo, perché tale assoggettamento avviene nella reciprocità e riguarda tutti i membri della comunità stessa, nessuno avrà interesse a sfruttare la volontaria sottomissione a proprio vantaggio e a svantaggio di qualcun altro. Incontriamo qui un vero e proprio paradosso secondo cui individui liberi scelgono liberamente di rinunciare alla propria libertà per accettare la soggezione ad un corpo di leggi vincolanti per ritrovare in esse una nuova sorgente di libertà civile e morale.

È questo il primo atto di nascita della società politica. “Una forma di associazione – scrive Rousseau - che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a sé stesso e resti libero come prima”. Dare vita a una siffatta società politica è - continua Rousseau “il problema fondamentale cui il contratto sociale dà la soluzione”. Il Contratto Sociale (1762), dunque, idea fondamentale e opera originale. Quello del filosofo ginevrino si discosta dal contrattualismo di Hobbes e Locke, che pure utilizzano la stessa espressione, unendo però aspetti di entrambe le prospettive precedenti e dando vita ad una posizione nuova: come per Hobbes, il contratto tra gli uomini rappresenta l'atto attraverso il quale si accede ad un ordine politico e alla pacifica convivenza in virtù dei benefici reciproci che tale condizione garantisce e al contratto viene demandato il compito di rendere possibile per gli uomini accedere all'ordine sociale; ma come in Locke, il contratto non può limitarsi a garantire l'assenza di conflitto; esso deve promuovere valori morali che nel caso di Rousseau sono la libertà e l'uguaglianza; quegli stessi valori messi in discussione dal processo di civilizzazione che ha portato dal primo, al secondo stato di natura.

Il primo passo per la stipula del contratto, lo abbiamo accennato nel Mind the Economy della settimana scorsa, è il processo di “alienazione” attraverso cui “ciascuno di noi – scrive il filosofo - mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”. Senza questo primo passaggio il contratto risultante sarebbe caratterizzato da termini iniqui, riflesso delle diseguaglianze e delle ingiustizie che caratterizzano la posizione di partenza. Un contratto ingiusto, dunque, che gli stessi cittadini non tarderebbero a rinnegare o un contratto impossibile da stipulare già in partenza, sul quale sarebbe impossibile far convergere il consenso.

Il passo successivo è quello relativo alla strutturazione del corpo politico cui il contratto darà vita. In questo Rousseau è radicale: “Solo la volontà generale – scrive - può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune”. Ma cosa si intende propriamente per “volontà generale”? Innanzitutto, va specificato che essa rappresenta il contraltare collettivo che va a controbilanciare il potere del governo. Per questo il primo aspetto caratterizzante della volontà popolare è che essa riguarda tutti i cittadini e da tutti i cittadini, nessuno escluso, trae la sua forza cogente. In questo senso la volontà politica è indivisibile e inalienabile. Dev'essere esercitata collettivamente e non può esistere nessuna forma di delega verso una rappresentanza indiretta. In secondo luogo, per capire le caratteristiche della volontà generale è utile distinguerla dalla “volontà di tutti”, come la chiama Rousseau.

La volontà di tutti è una regola di aggregazione delle volontà individuali che, in partenza, sono differenti, contrastanti, asimmetriche in forza e divergenti negli interessi. Volontà individuali che vengono, nella “volontà di tutti”, sommate, contemperate e, in qualche modo, mediate. La volontà generale, al contrario, nascendo dalla clausola di alienazione in virtù della quale i cittadini rinunciano alle loro specificità individuali, si forma ed esprime l'interesse comune, non la somma degli interessi dei singoli. Nel caso della volontà di tutti, per esempio, potrebbe verificarsi il fatto che un cittadino si trovi in minoranza su una certa posizione e, in virtù della somma degli interessi degli altri cittadini, sia costretto ad agire sulla base di una norma, approvata a maggioranza, appunto, che va, però, contro i suoi interessi individuali. Ma tale possibilità è inconcepibile per Rousseau: nessuno può essere tenuto ad agire in vista degli interessi di un altro.

La volontà generale, invece, diversamente dalla volontà di tutti, non può essere in contrasto con gli interessi di nessuno dei cittadini. È questa caratteristica che rende obbligatorio e conveniente, al contempo, uniformarcisi. Questo nel tipico spirito del filosofo che cercava di individuare l'associazione tra “ciò che il diritto permette” e “ciò che l'interesse prescrive (…) affinché la giustizia e l'utilità non si trovino a essere separate”.

Sembra risolversi in questo modo uno dei paradossi più interessanti che rinveniamo nel pensiero di Rousseau: la possibilità di trovare la libertà proprio nel momento in cui, attraverso l'atto di alienazione, si rinuncia ad essa. La questione è complessa e ancora dibattuta e non se ne comprendono bene i termini se non si coglie un ultimo aspetto fondamentale della costruzione del filosofo: ciò che egli definisce “un changement très remarquable”, un sostanziale cambiamento nell'uomo. Un cambiamento in virtù del quale, “en substituant dans sa conduite la justice à l'instinct”, si sostituisce la giustizia all'istito come movente ultimo della condotta umana.

È questo stesso “changement” che nell'originale interpretazione del filosofo inglese Martin Hollis, ci consente di assumere contemporaneamente il punto di vista del singolo e quello delle comunità nelle quali ciascuno di noi è inserito. “Le relazioni reciproche come l'amore, l'amicizia, l'onore e il patriottismo – scrive Hollis - estendono il sé in una comunità più ampia che in effetti si offre di stabilire chi siamo e a cosa apparteniamo. Ma queste relazioni non ci definiscono immutabilmente (…) Una cosa è una comunità i cui membri si riconoscono l'un l'altro, e dove si pongono al servizio gli uni degli altri conservando, tuttavia, la loro individualità; tutt'altra cosa è una comunità le cui esigenze di lealtà sono soverchianti” e quindi spersonalizzanti e prevaricatorie (Trust Whinthin Reason, CUP, 1998). È il primo tipo di comunità che si fonda su un tipo di razionalità non strumentale, che filosofi come Hollis ed economisti come Robert Sugded e Michael Bacharach hanno definito We-Rationality; una “razionalità del noi” che, nel piano rispetto della tradizione liberale non rinuncia al punto di vista del singolo, ma ne favorisce la coordinazione con il punto di vista di tutti gli altri in un orizzonte nel quale insieme è possibile cooperare in vista di un bene comune.

Come commenta ancora Hollis, forse anche a Rousseau possiamo dire che “Un'arroganza combattiva riguardo alle domande deve essere accompagnata da un'adeguata umiltà riguardo alle risposte”. Quelle risposte che Rousseau non ha fornito in maniera definitiva. Le risposte che ancora oggi, insieme, continuiamo a cercare e che, come diceva Kant nella citazione di apertura, sono necessarie per “dare un valore a tutti gli altri, a ristabilire i diritti dell'umanità”.

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