Che fine faranno le promesse di sostegno finanziario della UE alla svolta ecologica dopo le urgenze imposte dalla presente crisi pandemica? Strumenti Politici lo ha chiesto a Luigino Bruni
di Marco Fontana
pubblicato su Strumenti Politici il 22/10/2020
Jeffrey Sachs, fondatore dell’Earth Institute della Columbia University e dello United Nations Sustainable Development Network (due tra i più noti centri di ricerca sullo sviluppo sostenibile nel mondo) ha affermato che gli Stati Uniti, così come l’Europa, “si trovano ad un punto di svolta” per le politiche economiche Green. Sachs ha ricordato che “persino i 10 milioni di americani che vivono di oil & gas si stanno rendendo conto che questo business è in declino, per il calo della domanda da parte di clienti attenti all’impronta ecologica e per la calante competitività rispetto alle fonti rinnovabili” tanto che durante l’amministrazione Trump, nonostante le ingenti politiche di sostegno messe in campo, questi lavoratori hanno perso 30mila posizioni retribuite, mentre l’indice S&P Oil & Gas è sceso del 51,5% nell’ultimo anno. Al contrario del Clean energy, in aumento del 50,7%. Il virus però pare aver cambiato le priorità della politica e quindi è da valutare se questa svolta ecologica verrà confermata. L’UE ad esempio aveva promesso un grande sostegno finanziario per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, prevedendo di movimentare addirittura 1000miliardi di euro. Questo programma però era stato studiato prima della pandemia Covid-19, prima del Recovery Fund, insomma in una “era geologica” fa; in un mondo che non esiste più. Abbiamo deciso quindi di intervistare il professor Luigini Bruni, economista e storico del pensiero economico, per comprendere quale futuro può ancora ritagliarsi l’economia Green in Europa.
La crisi pandemica che stiamo vivendo quanto influirà sulle politiche europee nel raggiungimento degli obiettivi che si pone il Green new Deal?
Il problema è che noi oggi stiamo correndo a livello di politica economica generale. Una buona parte delle risorse vengono assorbite dall’emergenza pandemica. Tutta la fatica che avevamo fatto negli ultimi anni a convincere i governi a spostare risorse sul tema del green, della sostenibilità dal carbone e dalla plastica corre il rischio di passare in secondo piano. Questa crisi sanitaria è anche una crisi ambientale. Speriamo che questo timore sia in parte superato dal buon senso di politici e amministratori, ma ci sono tutti gli ingredienti per far saltare il banco.
Il fatto che i titoli di borsa legati al petrolio e agli altri combustili fossili stiano crollando secondo lei deriva anche dalla volontà dei mercati di diversificare il proprio portafoglio? Magari anche perché le banche e le assicurazioni che fanno i pacchetti pensionistici pensano che la pandemia possa portare con le politiche di resilienza e ecosostenibilità ad un superamento di queste aziende? O si tratta di situazioni completamente slegate?
Completamente slegato no. Però il crollo dei titoli dipende solo per piccola parte da una svolta green. Ci sono altre componenti per questa svalutazione dei titoli legati a fonti non rinnovabili. Una è la pandemia stessa, la diminuzione del traffico aereo, dei flussi turistici. Insomma la vita in Occidentale si è rallentata e di conseguenza anche il consumo di petrolio. Vi è poi l’incertezza di quanto durerà la pandemia e quindi questo rallentamento. Vi è poi la questione di osservare oggi scelte fatte prima della pandemia, quando il mondo era completamente diverso. Pensiamo ad esempio al passaggio all’elettrico, ogni grande compagnia di automobili ha nel suo catalogo almeno una macchina elettrica ormai. Lo spostamento del mercato verso le fonti rinnovabili era avviato e il mondo stava procedendo, faticosamente, in quella direzione. Ma ora è tangibile un problema di offerta e di domanda. La pandemia ritengo che non aumenterà la responsabilità delle persone. I mercati sanno che gli esseri umani non sono veloci ad adeguare le scelte alle preferenze. Solo le politiche dei Governi smuovono le abitudini dei consumatori e i mercati possono agevolarle cercando di scommettere in anticipo sui cambiamenti.
Jeremy Rifkin parla di una bolla da 100 milioni di dollari pronta a scoppiare, si riferisce sui giacimenti sotto terra e sotto gli oceani da cui non sarà più conveniente estrarre petrolio e gas. Secondo l’economista si sarebbe raggiunto il livello per il quale il costo dell’energia solare ed eolica è sceso sotto quello dei prodotti fossili. Questo è vero e può agevolare un passaggio all’economy green negli stati oppure è tutto legato a scelte politiche?
Rifkin in genere ha una buona capacità di previsione. Prenderei questa tesi sul serio. Certo il cambiamento, la svolta dell’economia verso fonti sostenibili non può solo dipendere dai consumatori più attenti e sensibili, ma anche e soprattutto dalle politiche intraprese dalle grandi imprese. Il fatto che lo sviluppo delle fonti alternative renda meno convenienti alcune forme tradizionali è abbastanza importante. La differenza si fa anche e soprattutto però con gli incentivi.
Esiste un grande fronte di giovani che si sta riaffacciando alla politica grazie ai temi ambientali, lei da economista pensa che questa passione si possa tradurre anche in un utilizzo più responsabile dei prodotti, un modo di consumare più consapevole o è solo da considerarsi uno stato emozionale?
Secondo me è la punta di un iceberg. Si vede che i giovani hanno un’altra marcia su queste cose. Sono nati già con scuole dove si parlava di sostenibilità, basta guardare i nostri figli e nipoti per capirlo. Come dicevo prima non bisogna essere ingenui e pensare che bastino i cambiamenti delle preferenze dei consumatori. Sui grandi interessi i consumatori possono fare poco. Non è che noi abbiamo un influsso diretto su quante pale eoliche verranno installate nei prossimi dieci anni in Italia. Sarebbe necessario premiare i partiti politici che danno importanza a questi aspetti. Le scelte dipendono dall’incontro degli interessi dei consumatori e delle industrie, della domanda e dell’offerta. La famosa forbice marshalliana. È ovvio che c’è un cambiamento culturale delle persone che deve però presto tradursi in un cambiamento delle politiche industriali perché solo una sintesi in tal senso può produrre un salto di qualità che è fondamentale per velocizzare questa rivoluzione green. Questi cambiamenti hanno bisogno di cambiamenti di stato.
Un altro professore che sicuramente conosce, Juan Martinez Alier afferma che “non è tutta cosi verde l’economia che luccica”. Lui sostiene che siamo verso un paradosso: si parla tanto di green ma poi gli Stati danno delle dimostrazioni di interesse diverse. Ad esempio se andiamo ad analizzare i 3125 conflitti che esistono nel mondo quasi tutti sono nati per contendere la terra, l’aria, acqua, petrolio. Elementi che non sono compatibili con un’economia ecosostenibile. Si predica in un modo ma poi si razzola in un altro.
Perché la politica è il luogo di compromessi, abbiamo la lobby delle grandi industrie petrolifere che tutti i giorni esercitano forti pressioni sui parlamentari. Promuovo iniziative per convincerli a rallentare. Non sottovalutiamo poi i problemi contingenti: pensiamo ad esempio che i governi hanno centinaia di migliaia di cittadini che hanno automobili a diesel e che non hanno soldi per comprare l’auto elettrica. Questo non si può ignorare. Questi problemi green finiscono per penalizzare i più poveri. Se il passaggio è troppo veloce, per esempio chi ha le macchine diesel non può più entrare in città, chi ha una macchina di seconda mano e ha un lavoro precario finisce che è costretto ad andare al lavoro a piedi. Il problema della transizione troppo veloce può diventare ingiusta per chi fronteggia le nuove povertà. Ciò che oggi la pandemia sta facendo nei confronti della green economy è che sta riducendo le risorse che sarebbero state destinate a quest’ultima. Tra qualche anno se le ONG non si inventano qualche dimensione green non potranno contare su alcun fondo pubblico. Ogni politica pubblica deve essere equilibrata. Se faccio un passaggio eccessivamente veloce e dimentico i costi della transizione (gente che non può comprare la machina ibrida ad esempio) produco un secondo movimento di critica dal basso dei poveri.
Papa Bergoglio nell’enciclica ‘Laudato si’ ha detto una frase forte dove ‘non basta conciliare la cura per la natura con la rendita finanziaria o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema non esistono vie di mezzo’. Lei pensa che il Vaticano, Papa Bergoglio possano incidere sulle scelte dell’Unione Europea, e che possano indirizzare/consigliare questi periodi di transizione senza lasciare nessuno indietro?
I documenti della Chiesa Cattolica non hanno un grande impatto sulla politica economica dei dei paesi in Europa e nel mondo. L’Europa è totalmente laica. Penso che il 99% non abbia mai letto neppure una riga di questi documenti. Questi documenti se sono in grado di muovere dal basso iniziative di singoli cittadini o associazioni, allora sì hanno poi effetti sulla politica sì, ma direttamente la vedo difficile.
C’è però anche una ‘continua processione’ dal Papa dei potenti per incontrarlo..
Il politico non è ideologico, ma razionale. Sa però che se non parla in questi termini non prende voti. Quando il numero due di Donald Trump è andato dal Papa tutto l’ha mosso fuorché la fede. Qualche effetto ce l’hanno le Encicliche ma solo se la cultura che generano riesce a muovere i giovani. Io faccio parte di una associazione che muove 3120 giovani economisti, ecco se loro saranno capaci di coordinarsi, di dar vita a iniziative, di crescere e diventare dei politici, dei professori universitari allora le encicliche avranno cambiato qualcosa. Ha segnato una presa di coscienza di un movimento che già era partito ma che cinque anni fa aveva già raggiunto una prima sintesi. Era già espressione di un mondo che stava cambiando. Le encicliche servono purché non siano solo pezzi di carta ma riescano a cambiare la vita della gente.