I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 26/05/2024
Le pagine del prestigioso Journal of Philosophy del marzo del 1995 ospitarono uno dei dialoghi filosofici più famosi degli ultimi decenni: quello tra il filosofo americano John Rawls e il filosofo tedesco Jürgen Habermas. Due giganti a loro modo, esponenti di punta di due tradizioni filosofiche differenti e poco dialoganti come quella post-analitica nordamericana e quella europea di matrice post-marxista. Il dialogo si articola in un saggio critico di Habermas intitolato “Riconciliazione tramite l’uso pubblico della ragione: considerazioni sul liberalismo politico di John Rawls” nel quale il filosofo tedesco si concentra sulla teoria della giustizia di Rawls e sulla risposta alle critiche da parte di quest’ultimo che ha come titolo semplicemente “Risposta a Habermas”.
Ci saranno altri interventi e altre opere dove Habermas tornerà sul pensiero di Rawls - come in “Ragionevole contro vero. La morale delle visioni del mondo” o nel suo recente Una storia della filosofia. Per una genealogia del pensiero postmetafisico (Feltrinelli, 2022) - riconoscendo una convergenza con il filosofo americano che, nel frattempo, aveva avuto modo di chiarire e sviluppare alcune delle sue posizioni più problematiche con la pubblicazione de Il Diritto dei Popoli nel 1999 e, soprattutto, con quella di Giustizia come equità. Una riformulazione del 2001. Lo scambio avrà anche l’effetto indiretto di portare all’attenzione di molti l’idea di “democrazia deliberativa”, una democrazia fondata, cioè, non solo sulla partecipazione ma sulla pubblica discussione e la condivisione di ragioni profonde per la convivenza e la cooperazione.
Il punto centrale del dialogo
Come si può fondare e mantenere stabile nel tempo una struttura di base istituzionale in un contesto politico caratterizzato dal pluralismo delle idee, dall’esistenza di visioni del mondo ragionevoli ma comunque in radicale contrasto e incompatibili tra loro? Questo il punto centrale del dialogo e anche il punto in cui si registra la maggiore distanza tra le posizioni dei due filosofi. È questa la domanda fondamentale da cui ha origine la riflessione del “secondo Rawls”, quello “politico”, a cui Habermas si rifà, criticandone però l’esito. Il confronto, quindi, ha luogo su un campo comune - quello della origine della legittimazione e della stabilità delle società liberali – dove si scontrano due prospettive che sono simili nelle finalità ma diverse per quanto riguarda la via da percorrere per giungere alla meta. Per Rawls la strada è quella del “metodo dell’evitamento” (“avoidance”) e del “dovere di civiltà” (“duty of civility”).
Nel primo caso si tratta di concordare sul fatto che in una società liberale bene-ordinata, le diverse concezioni del mondo che si fondano su pretese di verità assolute, siano esse religiose o secolari, devono essere tenute fuori dall’arena pubblica. I cittadini, come singoli, naturalmente hanno tutto il diritto di sposare una di queste visioni ideali con piena libertà di coscienza e manifestazione del pensiero, ma tenendo le ragioni che hanno origine in quelle visioni del mondo fuori dalle istituzioni ove si prendono decisioni che diventano vincolanti per tutti anche per coloro che hanno visioni del mondo differenti.
Il “metodo dell’evitamento” e il “dovere di civiltà”
Il “dovere di civiltà”, poi, come abbiamo già avuto modo di sottolineare nelle scorse settimane prevede che le proprie ragioni siano espresse pubblicamente in termini che devono essere rispettosi delle differenti opinioni morali o credenze religiose degli altri. Scrive Rawls al riguardo che “L’ideale di cittadinanza impone un dovere morale, non legale – il dovere di civiltà – di essere in grado di spiegarsi reciprocamente su questioni fondamentali come i principi e le politiche che sosteniamo e votiamo, possano essere supportati dai valori politici della ragione pubblica (…) L’unione del dovere di civiltà con i grandi valori della politica produce l’ideale dei cittadini che si governano in modi che ciascuno pensa che gli altri possano ragionevolmente accettare”.
Il “metodo dell’evitamento” e il “dovere di civiltà” sono i due pilastri su cui si basa la possibilità di pervenire a quello che Rawls definisce il “consenso per intersezione”. Si tratta di uno spazio nel quale è possibile trovare una base minimale di valori e di principi condivisi su cui fondare il funzionamento di istituzioni rispettose delle differenze, pluraliste e, comunque, dotate di legittimità e stabilità. Principi comuni la cui giustificazione ognuno può ritrovare nella sua personale visione del mondo e decidere di rispettare, quindi, anche per ragioni differenti da quelle che portano gli altri al rispetto dello stesso principio. In questo modo si viene a coagulare in quello spazio di intersezione il consenso intorno ad una teoria della giustizia fatta di principi che non potranno essere considerati “veri” in assoluto - non lo sono infatti per tutti contemporaneamente - ma che sono per tutti comunque “ragionevoli”, compatibili, cioè, con le differenti visioni del mondo, e quindi, accettabili come base per la creazione di una società ben-ordinata.
Questa impostazione rawlsiana si fonda come abbiamo visto su una netta separazione tra il mondo “privato” dei valori – le “visioni comprensive del mondo” le chiama Rawls - e lo spazio del “politico”, quello delle decisioni impersonali. Secondo Habermas tirare questa linea di demarcazione è un esercizio molto complicato perché a volte il posizionamento del confine stesso, tra valori privati e spazio dell’azione politica è una questione che ha a che fare con le diverse “visioni comprensive del mondo”.
Il modello (da superare) di una società liberale basata sul modus vivendi
Sia Habermas che Rawls vogliono superare il modello di una società liberale basata sul modus vivendi, sulla possibilità, cioè, di trovare via via compromessi temporanei su singole questioni. Entrambi hanno in mente un modello di democrazia deliberativa che riguarda, secondo Rawls, principalmente il funzionamento della struttura di base, le istituzioni fondamentali di una società, mentre per Habermas ha a che fare primariamente con il processo di formazione del consenso e della volontà collettiva dei cittadini. Un processo che, per il filosofo tedesco, non può essere caratterizzato da vincoli stringenti come in Rawls, rispetto a ciò di cui si può dibattere o ciò che, invece, deve invece rimanere escluso dalla discussione politica. È questo processo deliberativo che nello schema habermasiano genera il consenso, perché attraverso la deliberazione si matura la convinzione della correttezza e dell’appropriatezza di certi principi rispetto ai concorrenti. Un processo nel quale, come scrive l’allora senatore Barack Obama “tutti i cittadini [sono] impegnati nella verifica delle proprie idee in riferimento a una realtà esterna, persuadendo gli altri del proprio punto di vista e costruendo alleanze temporanee e mutevoli” (L’audacia della speranza. Rizzoli, 2007). Un processo che genera, in virtù del processo di convergenza sulle ragioni alla base dell’azione, un “consenso razionale”.
Il “consenso per intersezione”
In Rawls, e questa è la parte centrale della critica che gli muove il filosofo tedesco, invece, il “consenso per intersezione” si genera su principi comuni che vengono però condivisi sulla base di ragioni differenti, sulla base di differenti visioni del mondo. Questi principi vanno a formare un “consenso ragionevole”.
Come fa notare Antonio Floridia nel suo Un’idea deliberativa della democrazia (Il Mulino 2017), nella “discussione sui fondamenti dell’idea di «consenso per intersezione» (…) Ciò che direttamente o indirettamente entra in gioco è una precisa questione: quali siano la natura, lo spazio e le caratteristiche di una deliberazione pubblica come possibile fondamento della legittimità democratica”. Per Habermas la separazione della sfera del politico da quella valoriale delle visioni “comprensive” del mondo, come le chiama Rawls, implicata dal “metodo dell’evitamento” e necessaria per l’individuazione del consenso per intersezione non fa altro che sterilizzare, per così dire, il discorso pubblico limitando, paradossalmente, i termini di un accordo sostanziale. Come fa notare ancora Floridia “Coloro che convergono su un consenso solo «politico», così, non discutono veramente su cosa sia (più) «giusto», non mettono in discussione le rispettive pretese di validità delle loro norme: assumendo il punto di vista della «ragione pubblica», constatano soltanto che la loro idea di giusto, radicata nella loro visione del «bene», è compatibile con altre idee del «giusto», che altri sostengono sulla base delle loro rispettive visioni del bene”.
Si tratta di un accordo pragmatico, troppo simile proprio a quel modus vivendi che originariamente Rawls avrebbe voluto evitare. Questa sterilizzazione rappresenta per Habermas una riduzione eccessiva degli scopi della deliberazione politica cui non può essere sottratta, in nome della tolleranza e dell’inclusione, la sua dimensione morale, valoriale o religiosa. Habermas è recentemente tornato su questo punto nel suo ultimo libro, Una storia della filosofia. Per una genealogia del pensiero postmetafisico, dove sottolinea una strana implicazione derivante dalla “strategia dell’evitamento”. Scrive Habermas “Secondo la concezione di John Rawls, per le comunità religiose e le visioni del mondo – che appaiono sempre al plurale – è fatta salva la facoltà di avanzare “pretese di verità” (truth-claims) per le loro dottrine, mentre la concezione della giustizia capace di consenso – come minimo comune multiplo di queste dottrine rispetto all’ordine politico – può avanzare solo la pretesa di ragionevolezza”. La posizione di Habermas su questo punto è radicalmente opposta. Egli afferma con forza che un consenso su principi politici comuni non può che fondarsi “a partire dalle stesse ragioni”.
Tre fasi di giustificazione
La replica di Rawls su questo punto è interessante ed originale e va a definire nel dettaglio il processo di raggiungimento del consenso per intersezione che si articola in tre fasi successive di giustificazione. La prima fase è quella della “giustificazione pro tanto”. Una prima approssimazione al consenso che però è ancora vulnerabile alla forza disgregante delle visioni “comprensive” del mondo dei singoli o dei vari gruppi di cittadini. Nella seconda fase, quella della “giustificazione completa”, il consenso invece si stabilizza perché i singoli cittadini ritrovano la giustificazione di quei principi comuni nelle rispettive visioni del mondo attraverso un processo di incorporamento – Rawls lo definisce di “embedding” – nella struttura valoriale e ideale che i singoli ritengono vera. In questo modo i principi comuni acquistano la forza di verità che ciascun cittadino attribuisce alla propria visione morale, ideale o religiosa. La terza fase di giustificazione segna il passaggio dalla dimensione individuale a quella pubblica. È in questa fase che emerge il processo deliberativo. “La giustificazione pubblica – scrive Rawls nella sua replica ad Habermas - ha luogo quando tutti i membri ragionevoli della società politica elaborano una giustificazione della concezione politica condivisa inserendola all’interno delle loro diverse concezioni comprensive ragionevoli. In tal caso, i cittadini ragionevoli si prendono vicendevolmente in considerazione come possessori di dottrine comprensive ragionevoli che appoggiano quella concezione politica, e questo prendersi vicendevolmente in considerazione plasma la qualità morale della cultura pubblica della società politica”.
Il ruolo politico delle diverse visioni del mondo
Rawls si avvicina con questa chiarificazione alle posizioni della deliberazione habermasiana ma tenendo ancora le distanze per quanto riguarda il ruolo politico delle diverse visioni del mondo. Punto sul quale la sua posizione sembra irremovibile. Mentre per il filosofo tedesco è necessario che gli esponenti delle diverse visioni del mondo trovino insieme buone ragioni di accordo in base a motivazioni che ritengono giuste, per il filosofo americano le diverse visioni del mondo non possono essere discusse nella sfera pubblica. Si riconoscono reciprocamente prendendosi “vicendevolmente in considerazione”, ma per quanto riguarda i contenuti nessuna ingerenza politica è possibile. “I cittadini – sottolinea ancora Rawls - non guardano al contenuto delle dottrine altrui e rimangono pertanto all’interno dei confini del politico. Piuttosto, essi tengono in considerazione e attribuiscono un qualche peso solo al fatto – all’esistenza – del ragionevole consenso per intersezione stesso”.
Le differenze iniziali tra le posizioni dei due filosofi pur essendosi ridotte con il passare del tempo ancora permangono tra la visione habermasiana che ritiene irrinunciabile una discussione pubblica anche su quei valori morali che non possono essere lasciati fuori dalla deliberazione politica e la posizione di Rawls per il quale, invece, è ragionevole ricercare il consenso attraverso una discussione politica il più possibile imparziale e quindi scevra da visioni parziali ognuna delle quali ritiene di essere vera.
Quella discussione critica che doveva rimanere “nei ristretti confini di una discussione in famiglia” – come scriveva Habermas all’inizio della sua critica – è diventata per Rawls occasione di chiarimento su alcuni punti importanti della sua “svolta politica”. In conclusione, possiamo affermare con Antonio Floridia che “E’ avvenuto effettivamente quel che Rawls «sperava»: le sue idee sono entrate anche all’interno di quel particolare processo di costruzione di un’idea o di un ideale di «democrazia deliberativa». Un’idea che, appunto, è andata ben presto oltre la cerchia dei filosofi professionali, per divenire termine di riferimento di una più ampia comunità intellettuale e fonte di ispirazione di numerose pratiche sociali”. Una speranza che Rawls ha sempre considerato il movente principale della sua filosofia politica.