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Kant e la giustizia come coesistenza delle libertà

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 24/09/2023

Il filosofo tedesco Immanuel Kant è certamente un gigante della storia del pensiero occidentale. Durante la sua vita ha dato contributi durevoli non solo nei campi dell’etica e della metafisica ma anche in matematica, fisica e logica, tra gli altri. Ha scritto anche di filosofia politica, ma fino a non molti anni fa questi lavori venivano ritenuti minori, senili e per questo non hanno mai ricevuto grande attenzione da parte degli studiosi. Lo stesso John Rawls affronta il pensiero di Kant nelle sue lezioni di storia della filosofia morale ma non in quelle di filosofia politica. Tale convinzione negli ultimi anni è stata messa in discussione grazie al meritorio lavoro di alcuni originali interpreti come Howard Williams (Kant’s Political Philosophy. St. Martin’s Press, 1983) e Allen Rosen (Kant’s Theory of Justice. Cornell University Press, 1993).

La teoria politica di Kant si incentra sul concetto di Recht, un termine che possiamo tradurre come “giusto”, “retto”, l’equivalente dell’inglese right che significa “destra”, ma anche “diritto”, così come il francese droit-e. Tutti termini che oltre ad indicare il “giusto” vengono usati per designare il “diritto”. Al punto che recht sprechen vuol dire “dispensare giustizia” ed “esercitare il diritto”, allo stesso modo. Questa piccola nota etimologica già fa capire quanto il tema della giustizia sia inestricabilmente legato alla natura del diritto.

La Rechtslehre è l’unica opera che Kant dedica interamente al tema della giustizia

La troviamo inserita come prima parte di un’opera maggiore intitolata Die Metaphysik der Sitten (1797) (La metafisica dei costumi). È interessante notare che il titolo Rechtslehre è stato tradotto in inglese come Metaphysical Elements of Justice mentre la traduzione italiana figura come Fondamenti metafisici della dottrina del diritto, giusto per riproporre la natura polisemica del termine. Nella sua prefazione all’edizione inglese il traduttore stesso, John Ladd, sembra trovarsi in difficoltà nella scelta tra i due termini. Scrive infatti “La Metaphysik der Sitten”, considerata come filosofia morale pura (Sittenlehre), che si divide in due parti: teoria della giustizia o giurisprudenza (Rechtslehre) ed etica (Tugendlehre), e queste riguardano rispettivamente la giustizia (legge) e la virtù”. Giustizia o giurisprudenza, giustizia o legge. I termini non sono posti in contrapposizione, ma in parziale sovrapposizione semantica.

Kant è un pensatore profondamente liberale e non sorprende, per questo, che la sua teoria della giustizia si concentri quasi interamente sull’idea di libertà individuale e che le regole di giustizia siano considerate quali mezzi per la tutela di questa libertà. Libertà che, come Kant ribadisce chiaramente nella Critica della Ragion Pratica (1788), rappresenta la pietra angolare di tutta la sua filosofia.

Libertà positiva e libertà negativa

Nella sua teoria della giustizia si distinguono due differenti accezioni del termine: la libertà negativa e la libertà positiva. La prima è la possibilità di agire indipendentemente da ogni condizionamento o vincolo esterno; la libertà positiva, invece, è la “proprietà della volontà di farsi legge a sé stessa”, cioè di agire come un soggetto autonomo. Mentre la libertà positiva rappresenta l’oggetto dell’etica kantiana, la libertà negativa costituisce il centro della sua teoria della giustizia.

La libertà negativa viene ulteriormente declinata in libertà “giusta”, da una parte, cioè la libertà di agire nell’ambito circoscritto dalle leggi della giustizia e, dall’altra, viene considerato uno “stato di libertà privo di leggi esterne” che, invece, rappresenta una forma di libertà anarchica non sottoposta a nessun vincolo e tipica dello stato di natura pre-politico. La finalità ultima teoria della giustizia è quello di distinguere la libertà legittima da quella illegittima e di determinare quali condizioni rendano legittima la libertà stessa.
Andando più nello specifico Kant individua tre caratteristiche dell’idea di giustizia

Innanzitutto, essa ha senso solo se si applica alle relazioni tra individui e alle influenze reciproche che tali relazioni, “direttamente” o “indirettamente”, possono esercitare. Se una mia azione ha degli effetti diretti o indiretti su di te, allora, potrò essere soggetto a vincoli in virtù di una regola di giustizia. Ma se un’azione ha effetti diretti solamente su di me e neanche indirettamente influenza il benessere di nessun altro, tale azione non può in nessun modo essere vincolata attraverso una legge sulla base di considerazioni di giustizia.

In secondo luogo, la giustizia attiene esclusivamente al “rapporto di una volontà con la volontà di un altro”. Ciò implica che ogni atto consensuale è un atto giusto. Infine, la giustizia riguarda solamente la “forma del rapporto tra le volontà in quanto considerate libere”. In sintesi, conclude Kant, “il diritto, dunque [o la giustizia], è l’insieme delle condizioni per le quali l’arbitrio di uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro in base ad una legge universale della libertà” (Metafisica dei costumi, Bompiani, 2006, p. 61).

Questa libertà, fintantoché risulta compatibile con la libertà di ogni altro individuo, rappresenta l’unico diritto originale che pertiene ad un essere umano in virtù della sua stessa umanità. La libertà “giusta”, dunque, non è altro che quella condizione in virtù della quale la libertà esterna di ciascun individuo può essere esercitata sotto vincoli che la rendono compatibile con la libertà di tutti gli altri nell’ambito di un sistema comune di leggi.

L'alternativa è una libertà selvaggia

In assenza di tale sistema di leggi – o perché storicamente non si è ancora formato, o perché è collassato sotto i colpi di rivolgimenti quali una rivoluzione – si avrà solamente una libertà selvaggia e senza freni e uno stato di guerra simile a quello immaginato da Hobbes nello stato di natura prima della nascita del Leviatano. Per questa ragione tale stato sarà sempre da considerarsi ingiusto. Non tanto per via dell’ingiustizia delle azioni dei singoli quanto per l’assenza di un sistema formale di protezione della loro libertà. Anche una comunità di santi altruisti sarebbe da ritenersi ingiusta, secondo Kant, in virtù dell’assenza di meccanismi di risoluzione dei conflitti impersonali e non arbitrari.

Il passaggio dalla libertà selvaggia a quella giusta avviene, dunque, con l’instaurarsi di una società civile in grado di instaurare un assetto istituzionale e un insieme di leggi capaci di garantire la coesistenza dei diritti e delle libertà individuali e di farle esprimere al massimo grado; questa è la giustizia secondo Kant. Un concetto, però, indeterminato, perché, com’è facile comprendere, non esiste un unico sistema di norme in grado di assicurare tale compatibilità, ma una molteplicità indeterminata, appunto.

Una legge universale

La questione non preoccupa troppo il filosofo che è più interessato ad una legge universale di giustizia che alle sue declinazioni concrete. Questa legge universale non è altro che una versione politica, per così dire, del principio etico fondamentale di tutta la filosofia kantiana e cioè l’imperativo categorico. Nella Fondazione della Metafisica dei Costumi (1785) Kant lo enuncia in questo modo “Agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una legge universale”.

La legge universale di giustizia non è altro che una traslazione politica di questo imperativo etico, traslazione nella quale la legge universale è intesa a porre un vincolo di compatibilità reciproca alla libertà di azione dei singoli individui. Per rendere più comprensibile la natura di tale legge nel saggio “Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica»” del 1793, Kant specifica tre differenti interpretazioni utili a definire i principi costituzionali su cui ogni possibile “stato legittimo” dovrebbe fondarsi: il principio di libertà civile, quello di uguaglianza giuridica e, infine, il principio di libertà politica.

Analizzeremo nel dettaglio ciascuno di questi principi nei prossimi appuntamenti di Mind the Economy. Per il momento ci limitiamo a notare come con l’idea di condizione civile (Zustand) Kant vuole indicare la “libertà di ogni membro della società in quanto essere umano”. Essere umano, vuol dire per il filosofo avere la capacità di porsi dei fini ed operare delle scelte. La libertà civile, quindi, garantisce la libertà di poter scegliere e, visto che tale libertà origina dalla condizione stessa di essere umano, tale libertà di scelta deve essere distribuita equamente tra tutti gli esseri umani. Il secondo principio, quello dell’uguaglianza giuridica, esplicita l’idea di uguaglianza presente nel principio precedente chiarendo che “ogni membro della cosa comune ha verso ogni altro diritti coercitivi”. Ciò significa che nessun cittadino può godere di alcun vantaggio legale rispetto agli altri. Infine, troviamo il principio di libertà politica che Kant indica come principio di “indipendenza (sibisufficientia) di un membro della cosa comune come cittadino, cioè come colegislatore”. Secondo questo principio, i cittadini devono avere la possibilità di essere estensori di quelle stesse leggi che, al contempo, sono tenuti a rispettare.

Concludiamo questo primo incontro con la teoria della giustizia di Kant anticipando un aspetto che emergerà con maggiore chiarezza quando il discorso della giustizia passerà dal livello individuale a quello politico. Quando egli parla di giustizia politica non ha in mente un processo redistributivo o di accesso alle risorse o alle opportunità. “Dare a ciascuno il suo”, secondo la massima ulpianea significa per Kand mettere ogni cittadino nelle condizioni di godere di una procedura per risolvere i conflitti su ciò che egli considera suo. Ciò che lo Stato primariamente “produce e distribuisce” è l’accesso alle istituzioni che fanno funzionare tali procedure. Per questo Kant può definire la sentenza di un giudice come “un atto individuale di giustizia pubblica (iustitiae distributivae)” e Mathias Risse (On Justice. Philosophy, history, foundations. Cambridge University Press, 2020) può chiosare, al riguardo, che “la giustizia non è altro che il diritto pubblico che garantisce il quello privato”.

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