di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/09/2020
«Quello ch’ora dicesi Regno di Napoli abbraccia le più belle, le più amene, e le più fertili contrade della presente Italia, state già famose per le scuole del saper greco, per l’eccellenza delle leggi e de’ legislatori, per la loro forza terrestre e navale, per le guerre, per le arti, pel commercio» (p. 243). Con queste parole l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi, fondatore della tradizione italiana dell’economia civile, iniziava nelle sue Lezioni di commercio il ragionamento sulle cause del declino economico e sociale in cui si trovava il suo Regno di Napoli, e quindi indicava i mezzi per risollevarlo: meno "onore privato" e più "fede pubblica", meno terre ai latifondisti e più ai piccoli proprietari, più scuole per tutti, più conoscenze tecniche nel popolo, meno privilegi feudali e più premi agli artigiani e al commercio. E poi concludeva: «non siamo ancora giunti a quella coltura degl’ingegni, alla quale noi possiam pervenire meglio che gli altri, per la vivezza della mente e della fantasia, e dove altre nazioni forse di minore ingegno sono per diligenza usata giunte; anzi, che non siamo neppure alla metà dell’opera» (p. 248). Eravamo nel 1767.