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Il culto capitalistico

Una nuova cultura economica, più umana e inclusiva, nascerà da buone pratiche. Perché il capitalismo, proprio come un culto, si è imposto grazie a esse.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 08/10/2019

La prima virtù del mercato, che gli ha consentito di diventare un vero e proprio culto globale, è la sua capacità di esprimersi in pratiche quotidiane nella vita della gente.

Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo morto in un gulag nel 1937, definiva il capitalismo come religione di «puro culto»: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto» (1921). Per Florenskij viene prima il culto e, solo dopo, la «cultura» e i concetti astratti. Il capitalismo è dunque per Florenskji una religione di «sola prassi».

Per questa ragione il capitalismo, sul crepuscolo degli dèi tradizionali, è diventato la sola vera «religione» popolare del XXI secolo. La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una «esperienza» globale, onnicomprensiva e avvolgente – il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo –. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che il capitalismo trae la sua forza, perché crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto quotidiano di miliardi di persone. Ecco perché è diventato «il» culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni.

Se guardiamo bene il nostro secolo ci accorgiamo che il capitalismo è un insieme di pratiche quotidiane reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della «comunità», sta crescendo la stessa cultura commerciale. Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo infatti passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena.

Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del «patto» non quello del «contratto», anche il contratto di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia. E il lavoro non era una merce, perché sotto al contratto di lavoro si nascondeva un patto che fondava il lavoro e la Costituzione repubblicana. E invece oggi la «cultura» che si respira nelle imprese, nei loro «culti» e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche e, sempre di più, anche nei social media. Non cambia clima relazionale uscendo dall’ufficio ed entrando in un supermercato.

Ed è in questi culti e in queste pratiche reiterate che si alimenta la cultura-religione del capitalismo. Perché, ancora secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza». Infatti, la prima realtà di ogni religione, compresa quella cristiana, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta e feriale. Mito e dogma sono astrazioni, teorie, che vengono dopo. Come il cristianesimo pre-moderno era essenzialmente una prassi nell’Europa medioevale, anche il capitalismo del nostro tempo è un insieme di pratiche. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, i filosofi e i teo­logi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo, e sbagliano spesso le loro analisi.

Ma da tutto ciò deriva anche una conseguenza molto interessante: per superare la religione/idolatria capitalistica oggi occorrono nuove prassi, nuove esperienze. Non basta scrivere libri e articoli, non è sufficiente costruire teorie, perché anche la nuova cultura economica (che in tanti vogliamo più umana, più inclusiva, circolare) nascerà dalla prassi e dal pane quotidiano.

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