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La meritocrazia e i suoi limiti: da categoria teologica a dogma economico

A un certo punto nella civiltà occidentale è apparsa un’idea nuova e imprevedibile: una società meritocratica era finalmente possibile e questa era la business community

di Luigino Bruni

pubblicato su Corriere Buone Notizie il 19/12/2019

La meritocrazia è oggi la legittimazione etica della diseguaglianza. Nel XX secolo, in Europa, abbiamo combattuto la diseguaglianza come un male; nel XXI secolo, è bastato cambiarle nome (meritocrazia) per trasformare la diseguaglianza da vizio a virtù pubblica. Destino bizzarro, se si pensa che la meritocrazia è stata ed è presentata come una lotta alla diseguaglianza - per questo la bizzarria che i fanatici della meritocrazia siano persone che in buona fede vorrebbero una società migliore e più giusta.

Anche per la meritocrazia è vero quanto diceva, cento anni fa, il filosofo tedesco Walter Benjamin: «Il cristianesimo nell’età della Riforma si è tramutato nel capitalismo». La meritocrazia, infatti, prima di diventare dogma economico, era una categoria religiosa e teologica. «Lucrare meriti», «guadagnarsi il paradiso» e altre sono espressioni e temi che per secoli sono stati al centro della pietà cristiana, e continuano ad accompagnare ancora oggi la vita dei cattolici. Una certa idea di merito era già presente nella Bibbia, ma è stato l’incontro con l’etica greca e romana che ha trasformato parte del cristianesimo in un’etica del merito e delle virtù, fino a pensare che un cristiano per essere dichiarato santo debba mostrare di aver praticato virtù eroiche. L’etica biblica ed evangelica era invece diversa, l’eccellenza non era nelle virtù ma nell’agape, che non fa parte né delle virtù stoiche né di quelle aristoteliche. Da qualche anno la meritocrazia è uscita dai dibattiti delle aule delle facoltà di teologia, ha dimenticato le dispute dottrinali di Paolo, Agostino, Pelagio, Lutero ed è entrata nelle aule più eleganti e moderne delle business school, dove questi temi sono affrontati senza competenza teologica.

La meritocrazia ha radici antichissime e profonde. Una vena profonda delle civiltà umane ha da sempre pensato che da qualche parte dovesse esistere un ordine che ricompensasse ciascuno in base ai meriti che ha acquistato e lo punisse per le colpe commesse e cumulate. In genere questo ordine era concepito come sovrannaturale e rimandato ad una vita futura, poiché era troppo evidente che sulla terra un tale ordine non esisteva né era mai esistito. Ad un certo punto, però, dentro l’evoluzione della civiltà occidentale è apparsa un’idea del tutto nuova e imprevedibile, quella secondo la quale una società meritocratica era finalmente possibile qui ed ora. Semplicemente perché una tale società in realtà esisteva già, era la business community, della quale le grandi imprese e banche erano l’espressione più matura. Lì i meriti erano quantificabili, misurabili, ordinabili in una scala, in modo che a ciascuno andasse il suo, né più né meno. Il “suo” in meriti e, chiaramente, in demeriti. Una operazione-promessa che ha convinto molto e molti, perché si presentava e si presenta come una forma superiore di giustizia (rispetto a quella ordinaria e comune). E così nel giro di pochi anni la meritocrazia è migrata dalla business community all’intera società civile, dalla politica alla scuola, dalla sinistra alla destra, dalla sanità al non-profit, e sta insidiando anche le comunità ecclesiali. Una grande operazione ideologica, tra le più vaste del nostro tempo, che si basa sull’imbroglio, etico e antropologico, tanto evidente quanto non detto: che i nostri meriti e i demeriti siano evidenti, facili da vedere e poi da ordinare, misurare, e poi premiare.

Un’altra ipotesi, arbitraria, sta poi nel ritenere che il mercato sia capace di premiare i meriti, tacendo così che una virtù fondamentale del mercato, un tratto essenziale del buon imprenditore, è saper convivere con esiti non associati a meriti e colpe propri e degli altri. Un grave vizio del mercato è infatti pretendere che i propri risultati siano legati ai propri meriti e non a quanto gli altri con cui interagisco sono disposti a riconoscerci e a remunerare. Ma c’è di più. Noi sappiamo che i nostri meriti più preziosi li scopriamo affrontando una malattia, un lutto, una separazione. Perché sono davvero pochi i meriti che transitano per la sfera economica, poiché le imprese, in realtà, non sono interessate ai nostri meriti più profondi e veri. Non vogliono la nostra umiltà né la nostra mitezza, perché ci vogliono «vincenti» e invulnerabili; non vogliono la nostra misericordia né la nostra compassione, virtù e beatitudini che non capiscono e se le capiscono le temono. Non ce lo dicono ma da noi le imprese vogliono poco, perché intuiscono che se ci chiedessero molto noi daremmo troppo, diventeremo talmente liberi da non essere più gestibili e orientati dagli obiettivi aziendali. Infine, la meritocrazia è un meccanismo ideologico che ci libera dalla responsabilità nei confronti dei poveri. Un corollario necessario della meritocrazia è infatti l’interpretazione della povertà come colpa. Perché se il talento è primariamente merito (il grande assioma della meritocrazia), la mancanza di talento diventa demerito, e quindi la povertà colpa. L’ultimo residuo di welfare europeo sarà spazzato via quando ci saremo lasciati finalmente convincere che i poveri sono colpevoli della loro povertà. Li lasceremo nella colpa della loro sventura, e noi dormiremo tranquilli nei nostri meriti e nella nostra irresponsabilità.

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